La saggezza di Warren Buffett: investire nel lungo termine dalle azioni alle criptovalute
Warren Buffett è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi investitori di tutti i tempi, noto per il suo linguaggio semplice ma penetrante e per un approccio al capitale rigorosamente orientato al lungo termine. La sua filosofia si basa su alcuni principi chiave: comprare valore intrinseco a prezzi convenienti, avere pazienza anche nei momenti difficili e capire profondamente il business in cui si investe. In altre parole, investire vuol dire acquistare una parte di un’azienda o un asset, non semplicemente comprare un ticker su uno schermo. Buffett spesso ricorda che il mercato azionario è un meccanismo che trasferisce ricchezza dagli impazienti ai pazienti, e la storia gli ha dato ragione innumerevoli volte. Ad esempio, durante il XX secolo l’indice Dow Jones negli Stati Uniti passò da circa 66 punti a quasi 11.500 punti, un aumento enorme, eppure molti investitori riuscirono comunque a perdere denaro facendosi guidare dall’emotività – comprando quando i prezzi erano alti per “sentirsi al sicuro” e vendendo nel panico quando crollavano. La lezione? Pianificare a lungo termine, concentrarsi sul valore reale e ignorare il rumore di breve periodo.
In questo articolo esploreremo tutte le principali aree di investimento – dalle azioni alle obbligazioni, dai fondi comuni agli ETF, fino agli immobili, all’oro, alle criptovalute e agli investimenti alternativi – esaminandole attraverso la lente dei principi cari a Warren Buffett. Ogni sezione includerà esempi storici o reali, dai grandi successi aziendali come Coca-Cola ai momenti di follia collettiva come la bolla delle dot-com, dal crollo finanziario del 2008 fino alle recenti oscillazioni delle criptovalute. L’obiettivo è offrire una panoramica completa ma comprensibile, con un tono riflessivo e concreto, su come costruire ricchezza nel tempo adottando la mentalità del “value investing” e della pazienza che Buffett incarna. Iniziamo quindi questo viaggio nel mondo degli investimenti, guidati dall’esperienza di decenni e da casi reali che insegnano lezioni preziose.
Azioni: proprietà di aziende e valore nel tempo
Le azioni rappresentano quote di proprietà di un’azienda e storicamente sono state il motore principale di creazione di ricchezza per gli investitori di lungo termine. Investire in azioni secondo l’approccio di Warren Buffett significa pensare da imprenditore: quando si acquista un titolo azionario, si sta comprando una parte di un business reale, con i suoi prodotti, i suoi clienti e – si spera – i suoi profitti. Buffett insiste sul concetto di valore intrinseco: ogni azienda ha un valore fondamentale basato sui flussi di cassa futuri che potrà generare. Il mercato spesso prezza le aziende in modo volatile, oscillando tra euforia e depressione, ma nel lungo periodo il prezzo tende a convergere verso il valore intrinseco. “Il prezzo è ciò che paghi, il valore è ciò che ottieni”, ha sintetizzato Buffett in una famosa citazione.
Il valore intrinseco e la visione da azionista
Adottare una visione di lungo termine sulle azioni significa ignorare le fluttuazioni quotidiane e concentrarsi sui fondamentali. Buffett paragona spesso il mercato a Mr. Market, un personaggio immaginario introdotto dal suo mentore Benjamin Graham. Mr. Market è un socio in affari emotivo: un giorno è entusiasta e offre prezzi altissimi per le tue quote, il giorno dopo è depressissimo e svende la sua partecipazione. L’investitore intelligente – il “socio” razionale – approfitta delle offerte di Mr. Market invece di farsi guidare da lui. In pratica, questo si traduce nel comprare azioni di aziende solide quando il mercato le sottovaluta (magari a causa di paura o notizie negative temporanee) e nel non farsi trascinare dall’entusiasmo collettivo quando i prezzi schizzano oltre il valore reale dell’azienda. Buffett ha applicato questa filosofia innumerevoli volte. Uno dei suoi principi è la circoscrizione delle competenze: investire solo in business che si capiscono davvero. Se non si comprende come un’azienda fa profitti, è impossibile valutarne il valore intrinseco e quindi è prudente astenersi. Questa prudenza ha portato Buffett, ad esempio, a stare alla larga da molte aziende tecnologiche durante la bolla di internet degli anni ‘90, perché riteneva di non comprenderne appieno i modelli di business o di non poter stimare con sicurezza i loro utili futuri. Fu criticato per questa scelta mentre i titoli tech salivano vertiginosamente, ma quando la bolla delle dot-com scoppiò nel 2000 le sue riserve si dimostrarono fondate.
Esempi storici: la crescita di Coca-Cola e altre storie di successo
Nulla illustra meglio il potere dell’investimento azionario di lungo periodo quanto il caso di Coca-Cola, uno dei cavalli di battaglia di Buffett. Tra il 1988 e il 1989 Berkshire Hathaway (la holding di Buffett) investì oltre 1 miliardo di dollari per acquistare circa il 6% di Coca-Cola, approfittando del fatto che il titolo era stato colpito duramente dal crollo del mercato del 1987. Buffett e il suo team riconobbero che, al di là del ribasso temporaneo, Coca-Cola era un’azienda con marchio fortissimo, capace di generare profitti stabili e in crescita e con un vantaggio competitivo duraturo nel suo settore. Avevano visto giusto: nei decenni successivi Coca-Cola ha continuato a prosperare a livello globale. Oggi quella partecipazione vale circa 28 miliardi di dollari (Berkshire detiene ancora 400 milioni di azioni Coca-Cola, pari a circa il 9% della società). Non solo: grazie ai dividendi crescenti che Coca-Cola ha distribuito ogni anno (è un cosiddetto “dividend king” con oltre 60 anni consecutivi di aumenti dei dividendi), Berkshire Hathaway incassa annualmente un flusso di cedole impressionante. Nel 2025, ad esempio, i dividendi attesi da Coca-Cola per Berkshire superano gli 800 milioni di dollari. Per dare un’idea, Buffett ha pagato circa 1,3 miliardi per costruire la sua quota in Coca-Cola tra il 1988 e il 1994; oggi ogni anno riceve in dividendi una somma che è più della metà di quel capitale iniziale. Questo è il potere dei rendimenti composti e della pazienza: lasciar lavorare il tempo affinché i frutti (in questo caso, i dividendi reinvestiti e la crescita del valore dell’azione) si accumulino. Un investitore comune che avesse messo 1.000 dollari in Coca-Cola all’inizio del 1988, reinvestendo tutti i dividendi, avrebbe ottenuto un rendimento totale di circa il 7.000% nei successivi trent’anni – trasformando quei 1.000 dollari in circa 70.000 dollari. E questo attraverso diverse crisi economiche, guerre e cambi di tecnologia, a dimostrazione della resilienza di un’azienda forte e della strategia di lungo termine.
Oltre a Coca-Cola, si possono citare altri esempi di aziende che hanno premiato enormemente i loro azionisti pazienti: Apple, attualmente la maggiore partecipazione di Buffett, è passata attraverso alti e bassi ma nel lungo periodo ha prodotto ritorni straordinari; oppure Amazon, che dagli anni ’90 ad oggi ha trasformato il retail globale crescendo esponenzialmente. Buffett in realtà non investì in Amazon negli anni iniziali (ha ammesso di aver “sbagliato” a non comprendere subito il potenziale di Jeff Bezos), ma la storia di Amazon è comunque un manifesto della crescita che un business ben gestito può generare per i suoi azionisti: chi avesse creduto nella visione di Amazon sin dai primi anni 2000 e avesse tenuto duro durante lo scoppio della bolla dot-com (quando il titolo Amazon perse oltre il 90% del suo valore dal picco del 1999 al 2001), avrebbe poi assistito a un aumento colossale del valore del proprio investimento negli anni successivi. L’azione Amazon infatti, passata dalle ceneri della bolla internet, è salita di decine di volte nel decennio successivo e di ulteriori multipli nell’ultimo decennio, rendendo Bezos (e gli azionisti di lungo corso) enormemente ricchi.
Lezioni dalle crisi: la bolla delle dot-com e il crollo del 2008
Investire in azioni richiede però anche nervi saldi, perché lungo il cammino ci saranno inevitabilmente periodi di crisi e crolli di mercato. Buffett ci insegna a guardare a questi momenti come opportunità, purché si investa in aziende di qualità. La bolla delle dot-com dei primi anni 2000 è un esempio lampante di cosa accade quando il mercato perde contatto con i fondamentali: alla fine degli anni ’90, l’entusiasmo per le nuove società legate ad Internet fece volare il listino tecnologico Nasdaq di oltre il 500% in pochi anni. Aziende che non avevano ancora utili (né talvolta ricavi significativi) venivano valutate miliardi di dollari sull’onda della moda del “.com”. Buffett rimase scettico e, nonostante le critiche di chi lo vedeva come “troppo vecchio stile” in un’epoca di nuove tecnologie, evitò di buttarsi nell’acquisto indiscriminato di titoli tech che non riusciva a inquadrare in termini di valore reale. Quando nel marzo 2000 la bolla scoppiò, il Nasdaq crollò di circa il 77% entro il 2002, spazzando via aziende improvvisate e ridimensionando drasticamente anche molte sopravvissute. Fu uno dei peggiori collassi di mercato della storia moderna: oltre 5.000 miliardi di dollari di capitalizzazione furono bruciati in poco tempo. Eppure, chi in quella crisi mantenne la calma o addirittura comprò i pochi nomi solidi sopravvissuti (magari eBay o la stessa Amazon, che toccò minimi di circa 6 dollari nel 2001 dopo averne raggiunti 100 nel 1999) vide poi una ripresa poderosa nel decennio seguente. Buffett stesso non guadagnò direttamente dal rimbalzo delle dot-com, poiché non ne possedeva, ma le sue aziende “old economy” in portafoglio reggerono l’urto e continuarono a crescere in valore mentre il resto del mercato si leccava le ferite. La lezione della bolla dot-com è duplice: da un lato evitare di farsi trascinare dalle mode speculative, dall’altro riconoscere che dalle ceneri di una bolla possono emergere vincitori di lungo periodo – ma bisogna scegliere con cura e convinzione. Come disse Buffett citando un vecchio proverbio, “Ciò che il saggio fa all’inizio, lo stolto lo fa alla fine”, a significare che gli investitori più accorti magari avevano investito presto in Internet intuendone le potenzialità, mentre molti arrivati tardi comprarono a prezzi esagerati (lo “stolto alla fine”) e ne pagarono le conseguenze quando la realtà fece irruzione.
Un’altra pietra miliare è il crollo del 2008, la Grande Recessione seguita allo scoppio della bolla immobiliare e della crisi dei mutui subprime. In quella circostanza, il mercato azionario globale andò in panico: l’indice S&P 500 negli Stati Uniti perse più del 50% del suo valore dal picco dell’ottobre 2007 al minimo di marzo 2009, e quasi tutte le borse mondiali seguirono lo stesso destino. Fallivano banche centenarie, i telegiornali parlavano di “Armageddon finanziario” e la paura dominava gli investitori. Proprio in mezzo a quel caos, nell’ottobre 2008, Buffett scrisse un editoriale sul New York Times dal titolo emblematico: “Buy American. I Am.” (“Comprate titoli americani. Io lo sto facendo”). In quel pezzo spiegava che la paura diffusa era comprensibile ma che i timori sul lungo termine per l’economia erano esagerati; le aziende sane avrebbero continuato ad esistere e prosperare 5, 10, 20 anni nel futuro, anche se i loro utili in quel momento stavano soffrendo. Buffett ammise di non poter prevedere se il mercato sarebbe salito o sceso nell’anno successivo – e infatti, con amara ironia, i suoi acquisti azionari patirono un ulteriore -20% prima che la caduta finisse – ma era convinto che comprando a prezzi stracciati avrebbe ottenuto ottimi risultati sul lungo periodo. Aveva ragione: chi acquistò azioni nel pieno della crisi 2008-2009 vide negli anni seguenti un recupero completo e poi nuovi massimi storici; ad esempio dal minimo del marzo 2009 alla fine del 2013 l’S&P 500 triplicò il suo valore, e nel decennio successivo continuò a crescere oltre ogni aspettativa precedente. Buffett stesso realizzò investimenti memorabili in quel periodo, fornendo capitale a Goldman Sachs e General Electric in cambio di azioni privilegiate e warrant (strumenti che gli diedero sia cedole consistenti sia la possibilità di partecipare al rialzo azionario successivo). Ancora una volta la filosofia “essere avidi quando gli altri sono timorosi” – una delle sue massime più celebri – si dimostrò vincente.
In sintesi, il mercato azionario può essere volatile e spaventoso a breve termine, ma per chi adotta l’orizzonte del decennio o più, le azioni di aziende di qualità tendono a premiare la pazienza. Storicamente, un portafoglio azionario ben diversificato ha reso circa il 7-10% medio annuo (in valuta locale, prima dell’inflazione) nelle economie avanzate. Questo significa che, nonostante guerre, recessioni e crisi varie, ogni 10.000 euro investiti in borsa si sono moltiplicati in media in maniera consistente nel lungo periodo. Buffett riassume questa verità con un’immagine: “Qualcuno oggi sta seduto all’ombra perché qualcun altro ha piantato un albero molto tempo fa” – i benefici raccolti in futuro derivano dai semi piantati con lungimiranza molti anni prima. Perciò, per l’investitore che sa aspettare, le azioni restano uno strumento formidabile di crescita del capitale.
Obbligazioni: il fattore stabilità e i rischi nascosti
Le obbligazioni sono tradizionalmente considerate l’elemento difensivo di un portafoglio. Quando si compra un’obbligazione (sia essa un titolo di Stato o un bond societario), si sta in effetti prestando denaro a un ente che promette di restituirlo a scadenza, pagando lungo il percorso degli interessi. A differenza delle azioni, che non garantiscono pagamenti e il cui valore può oscillare pesantemente, le obbligazioni offrono flussi più certi (le cedole periodiche) e a scadenza il rimborso del capitale, salvo default. Questo fa sì che in genere abbiano minore volatilità e rischio inferiore rispetto alle azioni, soprattutto se si parla di obbligazioni emesse da governi o aziende solide. Buffett spesso paragona le obbligazioni a un mattone stabile nella costruzione del portafoglio, ma con un’avvertenza importante: il rendimento delle obbligazioni nel lungo periodo tende a essere inferiore a quello delle azioni e, soprattutto, può essere eroso dall’inflazione.
Cosa sono e come funzionano le obbligazioni
In termini semplici, acquistare un’obbligazione significa scambiare oggi una somma di denaro con la promessa di riaverla in futuro (a una data fissata) più un compenso per il prestito, che sono gli interessi. Le obbligazioni possono avere durate brevi (pochi mesi) o molto lunghe (anche 10, 20, 30 anni o più). Quelle emesse dallo Stato – come i Titoli di Stato italiani (BTP, Bot, CCT) – sono generalmente considerate sicure in quanto garantite dal governo, che difficilmente fallisce sulla propria valuta. Le obbligazioni societarie comportano un rischio leggermente maggiore (legato alla solidità dell’azienda emittente) ma offrono di solito interessi più alti per compensare. Buffett, nella sua gestione, ha fatto un uso moderato delle obbligazioni: essendo un investitore focalizzato sul rendimento, egli preferisce investimenti azionari o acquisizioni di intere società. Tuttavia, non disdegna le obbligazioni quando offrono valore. Negli anni ’80, ad esempio, i tassi di interesse erano altissimi – i titoli di Stato USA a 10 anni rendevano anche il 15% – e acquistare obbligazioni in quel contesto poteva significare bloccarsi un rendimento eccezionale per anni (Buffett in quegli anni comprò sia azioni che obbligazioni, beneficiando poi del calo dei tassi negli anni ‘90 che aumentò il valore dei bond detenuti).
Stabilità relativa e rischio tassi: il caso recente del 2022
Si pensa spesso che le obbligazioni siano “sicure” in senso assoluto, ma va ricordato che anch’esse possono perdere valore, specialmente se vendute prima della scadenza. Il rischio principale per un detentore di obbligazioni in ottica di mercato secondario è la variazione dei tassi d’interesse. Buffett spiega questo concetto così: quando i tassi di interesse salgono, le obbligazioni già emesse con cedole più basse diventano meno appetibili e il loro prezzo scende; viceversa, quando i tassi scendono, le vecchie obbligazioni a tasso più alto diventano preziose e il loro prezzo sale. Un esempio pratico e recente è quanto accaduto nel 2022: per contrastare un’inflazione ai massimi da 40 anni, le banche centrali (FED negli USA, BCE in Europa) hanno alzato rapidamente i tassi di interesse. Negli Stati Uniti i tassi a breve sono passati da praticamente zero a oltre il 4% in pochi mesi. Questo “shock” ha colpito duramente il mercato obbligazionario: i prezzi dei bond, soprattutto quelli a lunga scadenza, sono scesi di molto. L’indice Bloomberg Aggregate (che rappresenta l’intero mercato obbligazionario investment grade USA) ha chiuso il 2022 con un -13%, registrando la peggior performance annuale da quasi 50 anni. Un dato sorprendente per chi era abituato a vedere nelle obbligazioni un porto sicuro: di fatto, il 2022 è passato alla storia come l’anno in cui sia azioni che obbligazioni sono crollate insieme, demolendo le certezze della classica diversificazione (il tipico portafoglio “60/40” – 60% azioni, 40% bond – ha subito perdite significative). Questo scenario ha ricordato agli investitori che il rischio di perdita in conto capitale esiste anche per i detentori di titoli a reddito fisso, specie se i titoli vengono liquidati prima della scadenza in un momento sfavorevole. Naturalmente, chi ha tenuto le obbligazioni fino a scadenza ha comunque ricevuto il capitale iniziale indietro (a meno di default dell’emittente), ma se aveva bisogno di vendere prima ha cristallizzato le perdite. Buffett, da parte sua, aveva da tempo messo in guardia contro le obbligazioni a lunghissimo termine in un contesto di tassi minimi: in uno scenario di tassi in risalita o di inflazione, diceva, i possessori di bond “vedranno evaporare ricchezza in termini reali”, poiché i pagamenti fissi ricevuti perdono potere d’acquisto col salire dei prezzi. Proprio l’inflazione è il nemico silenzioso delle obbligazioni: ad esempio, se un BTP rende il 4% ma l’inflazione è al 5%, il risparmiatore sta in realtà perdendo l’1% annuo in termini di valore reale del suo denaro.
Un altro aspetto da considerare è il credito: Buffett consiglia di stare molto attenti alla qualità dell’emittente obbligazionario. In periodi di crisi, obbligazioni di aziende fragili (i cosiddetti “titoli spazzatura” o junk bonds con rating basso) possono anche fallire e non rimborsare affatto il capitale. Nel 2008-2009 ad esempio, diverse società altamente indebitate non riuscirono a far fronte ai pagamenti a causa del gelido inverno economico e i possessori di quei bond subirono perdite pesanti, a volte totali. Al contrario, Buffett investì in obbligazioni di aziende robuste o con clausole molto vantaggiose per lui (come i già citati deal con Goldman Sachs: prestiti con interessi elevati e opzioni ulteriori, quasi un incrocio tra bond e azioni privilegiate), mettendo il capitale dove vedeva un rapporto rischio/rendimento favorevole.
Il ruolo delle obbligazioni nel portafoglio e la visione di Buffett
Sebbene Buffett personalmente prediliga le azioni, riconosce che le obbligazioni possono avere un ruolo importante nel portafoglio di un investitore medio, soprattutto per la parte di capitale che si vuole preservare dalle oscillazioni violente. In particolare, per chi ha orizzonti temporali più brevi o ha bisogno di flussi stabili (ad esempio un pensionato che vive di cedole), i titoli obbligazionari – specialmente governativi di Paesi solidi – danno prevedibilità. Un portafoglio bilanciato con una quota di obbligazioni tende storicamente ad avere minori perdite nei crolli azionari: ad esempio, nel crollo del 2008, mentre le azioni dimezzavano il loro valore, i titoli di Stato di alta qualità salirono di prezzo (perché gli investitori vi si rifugiavano) e i portafogli con una buona dose di bond ridussero le perdite complessive. Questa funzione di ancora del portafoglio è preziosa. Buffett tuttavia mette in guardia: tenere troppi soldi in obbligazioni “sicure” per decenni può significare rinunciare a molta crescita potenziale. Egli fa spesso l’esempio del dollaro nel materasso o in titoli ultraconservativi: quel denaro perderà potere d’acquisto col tempo. Infatti, su periodi molto lunghi, i rendimenti delle obbligazioni tendono a malapena a superare l’inflazione. Negli Stati Uniti, dal 1928 al 2024, le obbligazioni hanno reso in media attorno al 4,5% annuo mentre l’inflazione circa il 3%, lasciando un modesto 1,5% annuo di guadagno reale; le azioni invece hanno reso quasi il 10% annuo nello stesso periodo, cioè circa il 7% oltre l’inflazione. La differenza è enorme sul lungo termine: 10 mila euro investiti a un rendimento reale dell’1,5% diventano circa 18 mila euro in 30 anni, mentre a un 7% reale diventano oltre 80 mila. Ecco perché Buffett dice che per i giovani investitori la maggiore “sicurezza” delle obbligazioni deve essere bilanciata con la consapevolezza che il vero rischio, alla fine, è non far crescere a sufficienza il capitale per battere l’inflazione e raggiungere gli obiettivi di lungo periodo.
In sintesi, le obbligazioni offrono stabilità e flussi di cassa certi e sono un valido strumento per preservare capitale e mitigare la volatilità di un portafoglio. Devono però essere selezionate con cura (emittenti solidi) e integrate in una strategia complessiva, ricordando che un eccesso di prudenza può sacrificare opportunità di crescita. Warren Buffett, nella gestione del patrimonio per sua moglie dopo la sua morte, ha indicato una ripartizione interessante: 10% in obbligazioni governative a breve termine e 90% in un fondo indice S&P 500. Questa indicazione – pensata per qualcuno che non dovrà occuparsi attivamente degli investimenti – suggerisce che una piccola quota di bond serve per le esigenze di liquidità e stabilità, mentre la maggioranza resta in azioni diversificate per cogliere la crescita di lungo periodo. È una proporzione aggressiva per molti consulenti tradizionali, ma riflette la fiducia di Buffett nell’azionario a lungo termine e il riconoscimento che un cuscinetto di sicurezza (10% in titoli molto liquidi e sicuri) è comunque opportuno. Ogni investitore dovrà adattare la percentuale alle proprie circostanze, ma il messaggio di fondo è chiaro: mai dimenticare l’inflazione e il potere del tempo, e bilanciare sicurezza e crescita di conseguenza.
Fondi comuni di investimento: diversificazione e gestione professionale
I fondi comuni sono uno strumento che permette a chiunque di investire in un paniere ampio di titoli (azioni, obbligazioni o altri asset) delegando le scelte a un gestore professionista. In pratica, raccogliendo i capitali di molti risparmiatori, un fondo li investe seguendo una certa strategia dichiarata (ad esempio un fondo azionario Italia comprerà decine di titoli della Borsa Italiana). Il vantaggio immediato è la diversificazione: anche con piccole somme, l’investitore partecipa a un portafoglio molto più ampio di quanto potrebbe fare da solo, riducendo il rischio specifico legato ai singoli titoli. Inoltre c’è la comodità di avere un team di gestione che si occupa di analisi e decisioni giornaliere al posto nostro. Ma tutto questo ha un costo, tipicamente sotto forma di commissioni annue (che nei fondi attivi tradizionali possono variare dall’1% fino anche al 2-3% del capitale investito all’anno). Buffett, pur essendo egli stesso un abilissimo gestore, ha opinioni piuttosto decise riguardo ai fondi comuni: ritiene che la maggior parte di essi non batta il mercato nel lungo termine, soprattutto a causa dei costi eccessivi e di approcci spesso poco differenziati. Per l’investitore medio, infatti, la raccomandazione buffetiana è ormai celebre: meglio investire in un fondo indice a basso costo (che replica un intero mercato come l’S&P 500) piuttosto che rincorrere il “mago” di turno.
Diversificazione per tutti: il ruolo dei fondi comuni
Immaginiamo un piccolo risparmiatore con poche migliaia di euro: comprarci direttamente un portafoglio diversificato di azioni globali o di obbligazioni sarebbe complicato (ogni transazione ha costi, servirebbero decine di titoli per diversificare, e molto tempo per seguirli). Invece, mettendo quei risparmi in un fondo comune bilanciato globale, egli ottiene immediatamente un’esposizione ampia: il suo denaro sarà frazionato su titoli di decine di paesi, settori, valute. Se una singola azienda va male, l’impatto sul fondo è limitato dal peso piccolo che ha nel totale. Questa logica di “non mettere tutte le uova in un solo paniere” è sacrosanta e Buffett stesso la approva per chi non ha le capacità o il tempo di selezionare attivamente i titoli. Un fondo comune azionario globale, ad esempio, investirà in centinaia di società leader mondiali; un fondo obbligazionario internazionale presterà soldi a Stati e imprese diversificando per scadenze e rating; ci sono fondi su quasi ogni nicchia (tecnologia, materie prime, mercati emergenti, ecc.), così come fondi bilanciati che mescolano azioni e bond per offrire un profilo di rischio intermedio.
Storicamente, i fondi comuni hanno permesso a milioni di piccoli investitori di partecipare alla crescita dei mercati finanziari senza dover diventare esperti. Negli Stati Uniti già dagli anni ‘50 e ‘60 iniziarono a diffondersi, ma fu soprattutto dagli anni ‘80 in poi che divennero il pilastro dei portafogli delle famiglie, complice anche la nascita di piani pensionistici privati e agevolazioni fiscali. In Italia, i fondi comuni si diffusero massicciamente negli anni ’90, quando il sistema bancario li spinse come strumento di investimento “moderno” in alternativa ai classici BOT e CCT in cui gli italiani tenevano gran parte del loro risparmio. Ciò portò a una maggiore partecipazione azionaria indiretta delle famiglie italiane, anche se la predilezione nazionale per la liquidità e gli immobili è rimasta forte (ancora oggi, oltre la metà della ricchezza delle famiglie italiane è investita in immobili, confermando il “mattone” come investimento preferito, mentre la quota in fondi e azioni è minore rispetto ad altri Paesi).
Gestione attiva vs indice: le performance nel lungo periodo
Warren Buffett è un grande sostenitore della gestione passiva per l’investitore comune. Questo può suonare paradossale – detto da uno che ha costruito la sua fortuna con la gestione attiva e stock picking – ma Buffett distingue tra l’investitore medio e il piccolo gruppo di gestori veramente bravi (e fortunati) che riescono a battere il mercato. Il suo argomento è il seguente: in media, i fondi gestiti attivamente sottoperformano l’indice di riferimento una volta considerati i costi. Numerose ricerche lo confermano: ad esempio, gli studi SPIVA di S&P mostrano che su un orizzonte di 10-15 anni, circa l’80-90% dei fondi attivi ottiene risultati peggiori del loro benchmark (come l’S&P 500). Un rapporto del 2023 indicava che circa il 90% dei fondi azionari attivi USA ha reso meno del proprio indice di riferimento nei precedenti 20 anni. Le ragioni sono varie: alcune derivano dai costi (commissioni e spese riducono il rendimento per l’investitore), altre dal semplice fatto statistico che il mercato in media è composto dall’insieme di tutti i fondi, dunque non possono tutti batterlo – anzi, devono fare un po’ peggio in aggregato proprio a causa dei costi. Certo, esistono gestori che in un dato periodo brillano: uno dei casi più noti è Peter Lynch, che gestì il fondo comune Fidelity Magellan dal 1977 al 1990 ottenendo un incredibile rendimento medio annuo del 29% circa, più del doppio di quello dell’S&P 500 nello stesso periodo. Lynch diventò una leggenda e scrisse anche libri di successo sul suo approccio (“One Up on Wall Street”). Tuttavia, va notato che pochi altri hanno replicato simili exploit su periodi lunghi. Spesso i fondi che sovraperformano per qualche anno finiscono per restituire parte dei guadagni in anni successivi meno fortunati, oppure il gestore star lascia e il fondo perde smalto. Un aneddoto interessante: nonostante le performance straordinarie del fondo Magellan sotto Lynch, pare che molti sottoscrittori del fondo non abbiano ottenuto quei rendimenti – addirittura alcuni hanno perso denaro – perché entravano e uscivano nei momenti sbagliati (versavano denaro quando il fondo era già salito molto e lo ritiravano nelle fasi di ribasso). Ciò evidenzia due cose: primo, che anche seguire un bravo gestore non garantisce successo se l’investitore non mantiene la disciplina; secondo, che l’emotività può portare le persone a usare male anche gli strumenti giusti.
Buffett ha messo alla prova la sua convinzione sui fondi indice in modo eclatante con una scommessa famosa. Nel 2007 sfidò pubblicamente l’industria degli hedge fund: scommise 1 milione di dollari che in un periodo di 10 anni un semplice fondo indice S&P 500 avrebbe battuto una selezione di fondi hedge costosi scelti da un gestore professionista. Un hedge fund (Protégé Partners) accettò la sfida scegliendo cinque fondi di fondi hedge (quindi portafogli di vari hedge fund). La scommessa, che andò dal 2008 al 2017, si concluse con una vittoria schiacciante di Buffett: l’S&P 500 generò un +125% cumulativo, mentre la media dei fondi hedge fece circa +36%. Il premio fu devoluto in beneficenza, ma il messaggio era chiaro: per un decennio intero, nonostante la crisi del 2008 e tutto il resto, l’indice azionario con zero capacità di market timing o selezione aveva battuto nettamente fior di gestori strapagati. Buffett nelle sue lettere agli azionisti riporta spesso questo esempio per ribadire che “i costi alti e l’eccesso di fiducia dei gestori attivi sono nemici dei risultati degli investitori”. Pertanto, il suo consiglio per la stragrande maggioranza delle persone – che non hanno né tempo né forse inclinazione per studiare bilanci e analizzare aziende – è quello di utilizzare fondi comuni passivi (o ETF, di cui parleremo a breve) a bassissimo costo che replicano l’andamento di un indice ampio, e poi avere la pazienza di mantenerli nel lungo termine attraverso le inevitabili tempeste di mercato.
Esempi di casi famosi e il consiglio di Buffett
Nel mondo dei fondi comuni attivi ci sono comunque storie interessanti da cui trarre spunto. Abbiamo citato Peter Lynch e il suo Magellan come esempio di gestione vincente. Un altro caso noto fu quello del Fondo Legg Mason Value Trust gestito da Bill Miller, il quale riuscì nell’impresa quasi irripetibile di battere l’S&P 500 per 15 anni consecutivi (dal 1991 al 2005). Questo gli valse gloria e notorietà, finché nel biennio 2007-2008 il fondo subì perdite pesantissime (per via di scommesse sbagliate su titoli finanziari e tecnologici proprio alla vigilia della crisi) e consegnò ai suoi sottoscrittori risultati inferiori all’indice su base decennale, intaccando la sua reputazione. Questi esempi servono a ricordare che anche i gestori talentuosi possono incorrere in periodi no, e che per un risparmiatore medio può essere difficile decidere quando “saltare a bordo” e quando eventualmente uscire da un fondo attivo – decisioni che spesso finiscono per essere prese al contrario (entrando dopo buone performance, uscendo dopo delusioni). La bellezza di un fondo indice è che toglie di mezzo questo dilemma: non c’è un “capitano” che può perdere il tocco magico; l’indice rappresenta il mercato stesso, e il mercato nel suo complesso, come visto, tende a salire nel lungo termine malgrado gli scossoni.
Buffett spesso loda l’opera di Jack Bogle, il fondatore di Vanguard Group, che negli anni ’70 creò il primo fondo indice per investitori retail. All’epoca fu una rivoluzione: passare dall’idea di battere il mercato a quella di eguagliarlo (ma con costi quasi nulli) non era intuitivo, eppure Bogle ha dimostrato di fare il miglior interesse degli investitori. Buffett ha definito Bogle come qualcuno che “ha fatto di più per gli investitori americani di chiunque altro” grazie alla diffusione degli index funds a basso costo, permettendo di risparmiare miliardi in commissioni e ottenere migliori rendimenti netti. In Italia, i fondi indice puri non sono stati molto promossi fino a tempi recenti, ma oggi con la globalizzazione della finanza e la crescita degli ETF (che sono fondi indice quotati in borsa) anche i risparmiatori italiani stanno abbracciando gradualmente questa filosofia.
In conclusione su questo tema, i fondi comuni sono un ottimo strumento per accedere ai mercati e diversificare. L’approccio di Buffett ci invita però a fare attenzione alle spese e alle promesse: invece di cercare il gestore superstar o il fondo dal rendimento passato eccezionale, spesso è più saggio accontentarsi di replicare l’andamento del mercato col minor costo possibile. Come recita un adagio, “i mercati salgono e scendono, ma le commissioni si pagano sempre”. E quelle commissioni, sul lungo termine, possono fare la differenza tra un investimento riuscito e uno deludente. Con costi bassi, diversificazione ampia e una strategia di lungo respiro, i fondi (soprattutto indicizzati) possono essere dei fedeli alleati per costruire ricchezza gradualmente, senza l’ansia di dover scegliere il titolo giusto al momento giusto. Buffett stesso, come visto, ha predisposto che la maggior parte del patrimonio della sua famiglia sia investita proprio in un fondo indice S&P 500 dopo la sua scomparsa, segno della fiducia che ripone in questo semplice ma efficace approccio.
ETF: la rivoluzione della gestione passiva a basso costo
Negli ultimi due decenni, gli ETF (Exchange Traded Fund) hanno trasformato il panorama degli investimenti globali. Si tratta, in sostanza, di fondi indice quotati in borsa come azioni. Un ETF replica fedelmente un indice o un paniere di asset (può essere un indice azionario come il FTSE MIB italiano o l’S&P 500 americano, un indice obbligazionario, il prezzo di una materia prima, ecc.) e le sue quote si comprano e vendono in tempo reale sul mercato, proprio come un titolo azionario. L’innovazione dell’ETF è stata quella di unire i vantaggi dei fondi comuni (diversificazione, gestione professionale passiva) con la flessibilità delle azioni (liquidità immediata, possibilità di trading intraday, trasparenza di prezzo). Warren Buffett vede di buon occhio gli ETF indice, poiché essi incarnano esattamente la strategia che lui raccomanda: bassi costi e investimento sull’intero mercato. In effetti, la maggior parte degli ETF più popolari sono a gestione passiva con commissioni annuali molto ridotte (spesso meno dello 0,1-0,2%).
Nascita e diffusione degli ETF
Il primo ETF della storia fu lanciato nel 1990 in Canada, ma il prodotto decollò veramente con la nascita dello SPDR S&P 500 ETF (ticker: SPY) nel 1993 sulla borsa di New York, che replicava l’indice S&P 500. Da lì è partita una crescita formidabile: gli ETF inizialmente erano pochi e legati a grandi indici, ma nel tempo se ne sono creati su quasi ogni mercato e strategia immaginabile. Oggi esistono migliaia di ETF in tutto il mondo. Per dare un’idea della portata del fenomeno, a fine 2024 gli asset globali investiti in ETF hanno superato i 14 mila miliardi di dollari, in aumento del 27% circa rispetto all’anno precedente. Si tratta di una porzione sempre più grande del totale risparmio gestito. In molti mercati, i flussi verso fondi passivi ETF hanno da anni superato quelli verso i fondi comuni attivi tradizionali. Questo trend si spiega coi vantaggi degli ETF: costi bassi, immediatezza (posso comprare o vendere in qualunque momento durante le ore di mercato, mentre un fondo comune tradizionale tipicamente permette un solo prezzo di uscita al giorno), e trasparenza (si sa sempre l’elenco esatto delle posizioni replicate, perché coincide con l’indice). Per l’investitore individuale, ciò significa poter implementare con facilità allocazioni diversificate: con due soli ETF, ad esempio un ETF MSCI World (azionario globale) e un ETF Bloomberg Global Aggregate (obbligazionario globale), si può di fatto ottenere una copertura su migliaia di titoli in tutto il pianeta, bilanciando pesi tra azioni e bond a piacere. Un lavoro che decenni fa avrebbe richiesto decine di fondi o l’acquisto diretto di un gran numero di titoli, oggi è fattibile con pochi clic e commissioni minime. Buffett, pur non usando direttamente ETF (lui preferisce comprare aziende intere o grandi quote), ha più volte ribadito che per la maggioranza delle persone un ETF su un indice ampio è la scelta migliore. Ha persino scherzato dicendo che se potesse avrebbe messo un “ETF su tutto il mercato americano” già quando iniziò a investire negli anni ’50, poiché era convinto – e i fatti gli hanno dato ragione – che l’economia americana nel complesso sarebbe cresciuta enormemente.
Vantaggi e rischi degli ETF
I vantaggi li abbiamo in parte elencati: costi bassi, diversificazione immediata, liquidità, semplicità (non devo scegliere il gestore o l’azione giusta, mi basta scegliere l’indice). Un altro punto a favore è la flessibilità: esistono ETF per praticamente ogni esigenza. Se credo nei mercati emergenti, c’è un ETF emergenti; se voglio espormi all’oro ma non comprarlo fisicamente, c’è un ETF sull’oro; se mi serve protezione dall’inflazione, esistono ETF di obbligazioni indicizzate all’inflazione; se desidero puntare sul settore tecnologico, ci sono ETF Nasdaq 100 o ETF tematici su cloud, intelligenza artificiale, ecc. Questa gamma enorme è un’arma a doppio taglio: da un lato offre opportunità, dall’altro può confondere e portare a usi impropri. Buffett metterebbe probabilmente in guardia dall’inseguire i temi più di moda tramite ETF settoriali ultra-specializzati. Ad esempio, negli ultimi anni sono spuntati ETF su settori molto ristretti o su panieri selezionati in base a trend (pensiamo all’ETF che seguiva l’indice di aziende legate a blockchain o quello sulle società di veicoli elettrici): niente di illegittimo, per carità, ma spesso questi strumenti attirano denaro sull’onda di forti rialzi del settore per poi subire grossi contraccolpi quando l’entusiasmo cala. Un caso emblematico è l’ETF ARK Innovation, diventato famoso nel 2020-21 per i suoi rendimenti strabilianti investendo in aziende “disruptive” (Tesla, Zoom, biotecnologie innovative ecc.), salvo poi crollare di oltre il 70% dal picco quando molte di quelle aziende hanno perso valore nel 2022. Questo insegna che la diversificazione va mantenuta: concentrare troppo in un singolo tema rende l’investimento simile a puntare su poche azioni.
Tuttavia, usati correttamente, gli ETF permettono di implementare con precisione la strategia voluta. Buffett probabilmente suggerirebbe di non complicarsi la vita: un ETF sull’S&P 500 (o su un indice mondiale) e il gioco è fatto per la parte azionaria di lungo termine. I rischi degli ETF sono essenzialmente gli stessi degli investimenti sottostanti. Se ho un ETF azionario globale, so che posso vedere oscillazioni anche marcate con le borse (come nel marzo 2020, quando per la pandemia gli indici globali crollarono di oltre -30% in poche settimane). L’ETF replicherà quel calo punto per punto. Quindi non c’è scappatoia rispetto alla volatilità di mercato – ed è giusto così, è lo stesso rischio che si avrebbe tenendo le singole azioni. Un rischio specifico degli ETF potrebbe essere la liquidità del sottostante: alcuni ETF su mercati molto di nicchia potrebbero non avere sempre altissima liquidità, ma per gli ETF sugli indici maggiori questo non è un problema (hanno scambi giornalieri per miliardi). Buffett ha messo in guardia solo su alcune sofisticazioni finanziarie possibili con gli ETF, come il trading frenetico reso troppo facile (il fatto che siano scambiati continuamente potrebbe indurre qualcuno a fare market timing e a entrare/uscire troppo spesso, vanificando il concetto di lungo termine) o l’uso di ETF a leva (che amplificano di 2x o 3x i movimenti giornalieri di un indice, o inversi che guadagnano quando l’indice scende): questi strumenti a leva sono tipicamente pensati per trading di breve periodo, non per investimento “buffettiano”, e infatti portano rischi molto elevati se tenuti a lungo (la matematica della leva fa sì che su orizzonti lunghi possano divergere molto dall’indice e generare perdite anche se l’indice sale lentamente).
Buffett e gli ETF: il caso degli indici azionari
Come già detto, Buffett consiglia agli investitori non esperti di “faresì il proprio ETF” comprando un fondo indice. Nella sua famosa indicazione per il patrimonio familiare futuro, suggerisce un ETF (o fondo indice) S&P 500 come cuore dell’allocazione. Perché proprio l’S&P 500? Perché rappresenta le 500 maggiori aziende americane, che a loro volta generano una grossa fetta del PIL mondiale. È quindi una proxy diversificata dell’andamento delle grandi imprese. Buffett crede molto nella forza dell’economia statunitense: nelle sue lettere ricorre la frase “Never bet against America” (non scommettere contro l’America) – e l’S&P 500 è un modo semplice per scommettere a favore dell’America. Naturalmente, un investitore europeo può voler diversificare un po’ di più geograficamente (esistono ETF MSCI World che aggiungono Europa, Giappone, mercati emergenti in proporzione), ma negli ultimi decenni il mercato USA ha dominato e Buffett stesso, pur essendo americano, ha un portafoglio fortemente concentrato su aziende USA che però operano globalmente.
Un punto interessante: Buffett ha elogiato gli ETF anche per investire in segmenti specifici quando aveva senso tattico. Un caso fu quando nel 2018 Berkshire investì circa 4 miliardi di dollari in un ETF S&P 500 quando cercava un modo rapido di esporre liquidità al mercato azionario – salvo poi rivendere quell’ETF per acquistare azioni della stessa Apple poco tempo dopo, ritenendo Apple un investimento ancora migliore specificamente. Questo dimostra che anche nella sua operatività, l’ETF è stato visto come uno strumento efficiente per posizionare temporaneamente capitale nel mercato in attesa di identificare target specifici.
Riassumendo, gli ETF rappresentano un’evoluzione dei fondi indice che ha abbattuto barriere e costi. Per un investitore che fa propri i principi di Buffett (costruire ricchezza nel tempo, non fare troppi movimenti inutili, ridurre i costi e l’emotività), gli ETF sono alleati formidabili. Permettono infatti di “comprare l’intero mercato” e poi coltivarlo con pazienza. C’è una citazione di Buffett che calza: “Non cercare l’ago nel pagliaio, compra l’intero pagliaio”. L’ETF è esattamente comprare il pagliaio – e farlo a costo quasi zero. In un mondo in cui la tecnologia e la concorrenza hanno compresso i costi di intermediazione, Buffett vede gli investitori individuali in una posizione migliore che mai: possono ottenere con facilità ciò che prima era riservato a pochi (un portafoglio ben diversificato globale) e tenere per sé la maggior parte dei rendimenti, invece di regalarli in commissioni. Naturalmente, tutto questo funziona solo se l’investitore avrà la disciplina di mantenere la rotta quando i mercati ballano: come con qualsiasi strumento, l’ETF non può proteggere dall’impulso di vendere in preda al panico. Ma qui entrano in gioco di nuovo la psicologia e la filosofia di Buffett: conoscere ciò che si possiede (se è un ETF sull’indice, si possiede un pezzo del capitalismo globale), essere convinti del valore di lungo termine e non farsi contagiare dal “virus” della paura quando tutti corrono alle uscite. Così facendo, gli ETF possono essere un veicolo efficiente verso la crescita patrimoniale nel tempo.
Immobili: il “mattone” tra sicurezza e bolle speculative
L’investimento immobiliare occupa un posto speciale nell’immaginario di molte persone, soprattutto in Italia. La casa di proprietà è spesso il primo grande investimento nella vita di una famiglia, e il “mattone” viene percepito come tangibile, solido, qualcosa che “non tradisce mai”. In effetti, gli immobili hanno caratteristiche uniche: sono beni reali, spesso generano un reddito (affitto) e soddisfano bisogni primari (abitare, lavorare). Buffett, sebbene non sia famoso per investimenti diretti in immobili commerciali o residenziali (la sua Berkshire Hathaway possiede però società nel settore, come agenzie immobiliari e produttori di mobili, e lui personalmente ha investito in terreni agricoli), riconosce il valore di lungo termine degli immobili ma mette in guardia dal considerarli sempre e comunque un affare sicuro. Anche il mercato immobiliare può vivere fasi di sopravvalutazione e crollo, e la crisi del 2008 lo ha dimostrato al mondo intero in maniera eclatante.
Il mattone come bene rifugio di lungo periodo
Nella mentalità comune, comprare casa è sia un investimento che un obiettivo di vita. Una proprietà immobiliare tende nel lungo periodo a mantenere il suo valore reale al passo con l’inflazione, a volte a incrementarlo, specie se si trova in zone dove la domanda cresce (città, quartieri emergenti, aree turistiche). In Italia c’è un detto: “il mattone non tradisce”. Non è un caso che la ricchezza delle famiglie italiane sia concentrata per oltre la metà in immobili: storicamente questo ha garantito una certa stabilità patrimoniale. Buffett concorderebbe sul fatto che possedere un immobile come casa propria può essere una decisione sensata: ti dà un utilizzo (abitazione) e nel frattempo il suo valore grosso modo segue l’andamento economico generale. Inoltre, diversifica rispetto agli investimenti finanziari. Un immobile affittato, poi, genera reddito periodico come un’obbligazione (l’affitto) ma con possibilità di crescita nel tempo (si possono adeguare i canoni, l’immobile può apprezzarsi). Proprio Buffett raccontò, in una delle sue lettere, di aver acquistato un terreno agricolo in Nebraska negli anni ’80, durante una fase in cui i prezzi agricoli erano depressi, e di averlo poi mantenuto fruttando affitti agricoli crescenti nel tempo – un investimento modesto ma profittevole, che gli ha insegnato come valutare gli immobili in base al rendimento annuo sul costo (una sorta di tasso di “cap rate”). Egli paragona l’acquisto di un immobile all’acquisto di un’azienda: bisognerebbe guardare ai flussi di cassa (affitti netti) attesi e al prezzo pagato, assicurandosi che ci sia un margine di sicurezza. L’immobile “da reddito” per Buffett è attraente se il rapporto affitto netto/prezzo è conveniente rispetto ad altre opportunità e se la posizione è tale da preservare o migliorare il valore nel lungo termine.
Nella realtà italiana, l’investimento immobiliare è stato per decenni molto remunerativo: chi ha comprato case negli anni ’70-’80 spesso ha visto valori moltiplicarsi fino ai picchi del primo decennio 2000. Ad esempio, i prezzi delle case in città come Milano o Roma sono aumentati notevolmente tra gli anni ’90 e gli anni 2000. Anche aggiustando per l’inflazione, c’è stato un aumento reale consistente, specialmente nelle zone più pregiate. Inoltre, la cultura del mattone offriva un senso di sicurezza psicologica: a differenza di un’azione in borsa, il cui prezzo appare ogni giorno sul giornale (oscillando), il valore di casa tua non viene “quotato” quotidianamente – e quindi l’investitore immobiliare è meno tentato di fare movimenti irrazionali, semplicemente perché non ha un ticker lampeggiante davanti. Questo può essere un vantaggio in termini di comportamenti: il mattone “costringe” alla pazienza, vuoi per i costi di transazione elevati, vuoi per la minore liquidità. Insomma, si è più portati a tenerlo per decenni, che è esattamente la formula magica della ricchezza composta (quanti piccoli investitori avrebbero beneficiato a non guardare ogni giorno la borsa e tenere i loro titoli per 20 anni come fanno con le case!).
Bolle immobiliari e crisi finanziarie: dagli USA al Giappone
Eppure, anche nell’immobiliare bisogna stare attenti alle valutazioni euforiche. La storia recente ci ha mostrato esempi drammatici di bolle immobiliari. La più famosa è quella USA dei primi anni 2000: i prezzi delle case salirono in modo quasi parabolico dal 2000 al 2006, alimentati da credito facile (mutui concessi con leggerezza, i famigerati subprime), speculazione (“flip” immobiliare: comprare case per rivenderle dopo pochi mesi a prezzo maggiore) e convinzione diffusa che “i prezzi non scenderanno mai a livello nazionale”. Buffett stesso, prima del 2008, ammonì che quel boom di costruzioni e mutui era insostenibile. Quando la bolla scoppiò, il danno fu enorme: il prezzo medio delle case negli USA calò di circa il 30% tra il 2006 e il 2012 (in alcune aree come Florida, California o Nevada il crollo fu del 50% o più). Milioni di americani si ritrovarono con mutui più alti del valore della propria casa (essere “underwater”) e il risultato fu un’ondata di pignoramenti e vendite forzate che accentuò il ribasso. Il crollo del mercato immobiliare fu la scintilla che fece detonare la crisi finanziaria globale: banche e istituzioni avevano impacchettato quei mutui in titoli complessi e quando la base (le case) perse valore, l’intero castello di carte crollò. Questo è un monito: anche un asset tangibile come la casa può diventare vittima di una mania speculativa. Chi aveva comprato case nel 2006 a prezzi gonfiati impiegò più di un decennio per recuperare il valore (in termini reali alcuni mercati USA solo nel 2020 hanno rivisto i massimi pre-crisi). Buffett, che aveva liquidità da investire, ne approfittò indirettamente comprando a prezzi di saldo azioni di società immobiliari o legate all’edilizia quando tutti scappavano dal settore. Ma fece anche un intervento diretto molto acuto: nel 2008 la sua Berkshire Hathaway acquistò obbligazioni di una società chiamata Clayton Homes (costruttrice di case prefabbricate) e poi l’intera società, scommettendo che la domanda di abitazioni negli USA sarebbe prima o poi rimbalzata – e così fu. In seguito, Berkshire Hathaway divenne anche proprietaria di una delle maggiori agenzie immobiliari USA (HomeServices of America), segno che Buffett crede nel valore di lungo termine del settore se acquisito a buon prezzo durante una fase depressa.
Un altro esempio famoso è la bolla immobiliare giapponese degli anni ’80. In Giappone, a fine anni ’80, i prezzi dei terreni e degli immobili raggiunsero livelli stratosferici: si diceva ironicamente che il valore solo del palazzo imperiale di Tokyo valesse quanto tutto lo Stato della California! Le grandi città giapponesi videro quintuplicare o più i valori in poco tempo. Poi, nei primi anni ’90, la bolla scoppiò e il Giappone entrò in quella che è chiamata la “decennio perduto” (poi diventato quasi trentennio perduto): deflazione, stagnazione e valori immobiliari in caduta libera. Pensate che ancora oggi, a oltre 30 anni di distanza, i prezzi medi delle case in Giappone sono inferiori del 20-30% rispetto ai picchi del 1990. Chi comprò in vetta alla bolla ha visto il proprio investimento decumularsi negli anni seguenti senza mai tornare ai livelli iniziali, un incubo per chi pensava che la terra nipponica fosse “sicura” quanto l’oro. Questo caso estremo insegna che la location e le dinamiche demografiche/economiche contano: il Giappone invecchiava e la popolazione iniziò a diminuire, così come la produttività. Meno famiglie e meno reddito significano meno domanda di case, e dunque prezzi in calo.
In Italia non abbiamo avuto un crollo drammatico come quello USA 2008, ma dopo il 2007 anche qui i prezzi delle abitazioni hanno subito un lungo declino in termini reali. Dal 2008 al 2017 circa, il mercato immobiliare italiano ha attraversato quasi un decennio di fiacca: transazioni ridotte, prezzi scesi in molte città (soprattutto nei centri minori e nel Sud, anche -20/-30%). Solo Milano e poche realtà dinamiche hanno recuperato rapidamente; altre zone sono rimaste depresse a lungo. Questo ha sorpreso chi era abituato a vedere solo salire il valore delle case. Ci sono state famiglie che, avendo comprato casa nel 2006-2007 all’apice del ciclo, l’hanno rivenduta magari dieci anni dopo a un prezzo inferiore (o equivalente ma con potere d’acquisto eroso dall’inflazione). Nulla di tragico se l’uso dell’immobile c’è stato (hanno comunque beneficiato dell’abitazione), ma come investimento non è stato brillante in quel periodo. Di nuovo, la lezione è che bisogna considerare cosa si paga inizialmente: Buffett direbbe che anche il miglior asset può rivelarsi un investimento mediocre se pagato a un prezzo eccessivo.
Investire in immobili con buon senso
Come applicare dunque l’approccio “buffettiano” all’immobiliare? Innanzitutto, valutare l’immobile come faremmo con un’azienda. Se è una seconda casa da mettere a reddito, calcolare il rendimento netto annuo (affitto annuo meno tasse e spese, diviso prezzo d’acquisto). Buffett cercherebbe un rendimento soddisfacente rispetto ad alternative sicure: ad esempio, se i BTP rendono il 4% e un immobile rende netto il 2% dell’investimento, forse non è un grande affare a meno che si creda fortemente in un apprezzamento futuro. Se invece quell’immobile rende l’6-7% netto, è già più interessante, soprattutto se l’area ha prospettive di crescita. Un aspetto importante è capire la localizzazione e la qualità dell’immobile: Buffett parla spesso di “fossato competitivo” nel contesto aziendale (cioè un vantaggio difendibile). Per un immobile, il “moat” potrebbe essere la posizione (centro storico, vista mare, vicino a università, ecc.) o caratteristiche uniche (es. un edificio di pregio architettonico). Questi elementi fanno sì che anche in periodi di magra ci sarà domanda per quell’immobile. Al contrario, comprare in un luogo in declino demografico o economico può rivelarsi una trappola di valore.
Buffett inoltre scoraggia l’uso eccessivo di leva finanziaria (debito) in qualunque investimento. Molti prima del 2008 compravano case con mutui anche sul 90-100% del valore, convinti di rivendere a prezzo più alto e guadagnare con soldi presi a prestito: è una strategia molto rischiosa se il mercato gira al contrario, perché si rimane con un debito maggiore del valore dell’asset. Meglio usare moderazione: un mutuo può amplificare i guadagni se le cose vanno bene, ma non bisogna mettersi in una posizione in cui un calo del 20-30% porta alla rovina finanziaria. Buffett è famoso per odiare l’eccesso di indebitamento; a più riprese ha detto che Berkshire Hathaway è solida anche perché evita di incorrere in debiti che non potrebbe sostenere nelle peggiori delle ipotesi.
Un’altra via per investire in immobili senza comprare direttamente appartamenti o palazzi sono i REIT (Real Estate Investment Trust) o fondi immobiliari quotati: sono società che possiedono portafogli di immobili (commerciali, residenziali, hotel, uffici) e distribuiscono la maggior parte degli utili da affitto come dividendi. Buffett ne ha acquistato occasionalmente qualcuno (in passato Berkshire ha detenuto azioni di REIT come General Growth Properties dopo la crisi). I REIT consentono di avere esposizione immobiliare con piccole somme, liquida e diversificata, ma soffrono anch’essi nei periodi di tassi alti o crisi (nel 2022, ad esempio, gli indici REIT globali hanno subito cali attorno al 25%, poiché la prospettiva di tassi maggiori ha ridotto il valore attuale degli affitti futuri e i costi di finanziamento sono saliti). Dunque, anche lì, occhio al prezzo e al contesto dei tassi.
In definitiva, l’immobiliare può essere un tassello importante di una strategia di investimento orientata al lungo termine. Offre una combinazione di valore d’uso, protezione dall’inflazione e potenziale rendimento. Va però approcciato con la stessa mentalità value: comprare quando si intravede un margine (ad esempio, in fasi di mercato depresso o su proprietà che si possono migliorare aumentandone il valore), diversificare (non concentrare tutto su un singolo progetto scommettendo la farm, direbbe Buffett) e avere pazienza. Proprio la pazienza spesso premia: chi ha mantenuto immobili nei centri giusti per decenni ha visto crescere rendite e valori; chi ha cercato di fare speculazioni rapide a leva in mercati surriscaldati ha rischiato grosso. Buffett insegna a non inseguire la folla: se tutti comprano casa convinti che sia impossibile perdere, quello è il momento di stare attenti. Se nessuno vuole comprare case perché c’è pessimismo nero, potrebbe essere il momento di cercare occasioni. Questa contrarian view ha funzionato per lui in borsa e funziona in ogni mercato, incluso l’immobiliare.
Infine, un tocco italiano: l’amore per il mattone nel nostro Paese è anche figlio di una cultura in cui la casa di proprietà è sicurezza. Buffett, noto anche per la sua sobrietà, vive ancora nella stessa casa acquistata a Omaha nel 1958 per 31.500 dollari. Non l’ha mai cambiata perché – a suo dire – gli fornisce tutto ciò di cui ha bisogno. Questo aneddoto mostra che Buffett vede la casa per quello che offre, non per lo status. Applicato agli investimenti, potremmo dire: comprate immobili che abbiano sostanza (buoni affitti, utilità reale) più che apparenza. Così facendo, probabilmente tra qualche decennio quei beni avranno preservato e accresciuto il vostro capitale, come una quercia che cresce lenta ma robusta.
Oro: il metallo prezioso tra miti e realtà
Pochi argomenti dividono gli investitori come l’oro. Da secoli considerato il “bene rifugio” per eccellenza, l’oro viene visto come una riserva di valore nei momenti di crisi, un antidoto all’inflazione e all’incertezza. D’altro canto, investitori come Buffett sono notoriamente scettici sull’oro come investimento a lungo termine, perché – a differenza di azioni o immobili – è un asset che non produce reddito: un lingotto d’oro rimarrà lo stesso lingotto tra 100 anni, mentre un’azione potrebbe aver moltiplicato i suoi profitti e pagato dividendi. Buffett una volta fece un’analogia famosa: se prendiamo tutto l’oro del mondo, otteniamo un cubo di 20 metri di lato che non fa nulla se non stare lì luccicante; con lo stesso valore potremmo comprare tutte le terre coltivabili degli Stati Uniti più diverse compagnie petrolifere e avere ancora contanti avanzati – cosa pensate produrrà più ricchezza nei prossimi 50 anni, il cubo d’oro o quelle attività produttive?. La risposta per lui è ovvia: meglio asset che generano utili. Tuttavia, Buffett riconosce che l’oro può avere i suoi momenti e le sue ragioni tattiche, soprattutto legate alla psicologia del mercato.
L’oro come riserva di valore nelle crisi
Storicamente, l’oro ha brillato (è il caso di dirlo) in periodi di turbolenza. Durante l’inflazione galoppante degli anni ’70, ad esempio, il prezzo dell’oro passò da circa 35 dollari l’oncia (valore fissato fino al 1971, quando finì Bretton Woods e il dollaro smise di essere convertibile in oro) fino a oltre 800 dollari l’oncia nel 1980. Chi possedeva oro in quel decennio vide proteggere e anzi aumentare molto il proprio potere d’acquisto, mentre chi deteneva solo valuta o obbligazioni in dollari soffrì enormemente l’erosione inflazionistica. L’oro è stato rifugio anche in tempi di crisi geopolitiche: durante guerre o tensioni globali, spesso gli investitori comprano oro facendo salire le quotazioni. Un esempio recente: nel 2020, con lo scoppio della pandemia da Covid-19 e le iniezioni massicce di liquidità dalle banche centrali, l’oro è salito raggiungendo nuovi massimi storici (oltre 2.000 dollari l’oncia nell’agosto 2020). Ancora, nel 2022, con l’inflazione tornata ai massimi da decenni e la guerra in Ucraina, l’oro ha mantenuto un buon livello e ha toccato di nuovo punte vicine al record nel 2023-2024. Tutto ciò conferma la sua funzione di copertura (hedge) nei momenti di paura: quando crollano le borse o la fiducia nelle valute vacilla, l’oro diventa attraente perché percepito come porto sicuro che non dipende da nessun governo (nessuno “stampa” oro a volontà, la sua quantità cresce lentamente con l’estrazione mineraria) e non può fallire (un’oncia d’oro non è il titolo di qualcun altro, è un bene in sé).
Buffett comunque sottolinea che molta della domanda di oro è alimentata proprio dalla paura. Egli dice: “L’oro non produce nulla, quindi chi lo compra scommette essenzialmente che in futuro qualcuno sarà più spaventato di lui e lo ricomprerà a un prezzo maggiore”. È un’affermazione provocatoria, ma con un fondo di verità: l’oro sale spesso perché aumenta il numero di investitori preoccupati (dell’inflazione, di crisi, ecc.) che lo vogliono detenere. Quando poi quelle paure si attenuano, l’oro tende a scendere perché non ha un flusso di cassa proprio a sostenerlo. Ad esempio, dopo il picco del 1980, l’oro entrò in un lungo “inverno”: per tutta la durata degli anni ’80 e ’90 scese e rimase sopito, toccando minimi sotto 300 dollari alla fine del secolo. Chi l’aveva comprato in cima alla paura dell’inflazione nel 1980 vide decurtato il valore di oltre due terzi nel ventennio successivo. Solo negli anni 2000, con nuove crisi (bolla internet, poi crisi finanziaria) e soprattutto con l’ascesa di Paesi come India e Cina che accumulavano oro, il prezzo è risalito fortemente.
Nel lungo periodo secolare, le azioni hanno surclassato l’oro in performance. Come indicato in uno studio aggiornato al 2024, dal 1928 l’oro ha reso circa il 5% annuo nominale medio, contro quasi il 10% delle azioni USA. In termini reali, tolta l’inflazione, l’oro ha probabilmente avuto un rendimento reale annuo intorno al 1-2%, contro il 6-7% delle azioni. Questo significa che per creare ricchezza il metallo giallo è stato molto meno efficace. Buffett spesso ironizza: “Dal tempo degli faraoni l’oro non ha fatto altro che cambiare di mano, mentre l’umanità produceva ricchezze enormi”.
La visione di Buffett sull’oro e come può inserirsi in un portafoglio
Warren Buffett è notoriamente critico sull’oro. Lo considera un asset “sterile” dal punto di vista economico. Nei suoi scritti ha fatto questo paragone: se un marziano guardasse la Terra vedrebbe che estraiamo oro dal sottosuolo in miniera, per poi fonderlo e metterlo in un altro buco (una cassaforte) sorvegliato da gente armata – e non succede nient’altro. Penserà che siamo folli” (parafrasi di un suo commento umoristico). Il suo punto è che il vero valore economico viene da attività che generano utili: fabbriche, aziende, terreni agricoli che producono cibo, ecc. L’oro non fornisce né interesse né dividendi, e per conservarlo in sicurezza spesso si spendono soldi (casseforti, assicurazioni, custodia in caveau). Dunque dal punto di vista di un investitore di lungo corso, l’oro è poco attraente.
Tuttavia, Buffett comprende perché in certi contesti storici la gente si rifugia nell’oro: quando non ci si fida delle valute (fiat money), l’oro è una delle alternative. Anche alcune banche centrali negli ultimi anni hanno aumentato le riserve auree (ad esempio la Russia, la Cina, paesi emergenti) come diversificazione dalle riserve in dollari. Ma ciò non fa che confermare l’oro come scelta di difesa, non di crescita. Buffett preferisce di gran lunga detenere azioni di aziende che possano fronteggiare l’inflazione aumentando i prezzi e i profitti (come aziende con marchi forti – vedi Coca-Cola che nel tempo ha incrementato il prezzo delle sue bevande e i dividendi). Egli stesso ha avuto un’occasione di investimento legata all’oro: qualche anno fa Berkshire Hathaway acquistò azioni di Barrick Gold, uno dei maggiori produttori mondiali di oro, sorprendendo molti commentatori (dato il noto scetticismo). In realtà quell’investimento è stato piuttosto breve, segno che probabilmente non era Buffett in persona ma uno dei suoi collaboratori ad averlo fatto come mossa tattica, e infatti la posizione è stata poi venduta. Buffett, commentando indirettamente, disse che preferisce di gran lunga investire in qualcosa come Apple che “produce prodotti che le persone adorano e genera enormi utili”, piuttosto che in oro che “non fa nulla”.
Ciò non significa che l’oro non possa avere un posto in un portafoglio diversificato. Alcuni investitori di lungo termine tengono una piccola quota (5-10%) in oro o metalli preziosi come assicurazione. Come l’assicurazione della casa: speri di non doverla usare (non vuoi che la casa bruci), ma se succede qualcosa di grave, sei contento di averla. Allo stesso modo, se non accade nessun collasso valutario o iperinflazione, l’oro in portafoglio magari non brillerà, ma se mai capitasse uno scenario estremamente avverso per i mercati finanziari, quella quota in oro potrebbe proteggere il patrimonio. Buffett personalmente preferisce assicurarsi in altro modo – ad esempio tenendo molta liquidità disponibile per far fronte alle crisi e magari approfittarne – ma per un investitore medio che non ha la capacità di iniettare nuovi capitali in crolli epocali, l’oro può essere un diversificatore non correlato.
Dati storici evidenziano come l’oro sia decorrelato dalle azioni: in alcuni decenni negativi per le borse (anni ‘70, 2000-2002) l’oro fece bene. Però in altri periodi è rimasto piatto mentre le azioni salivano (anni ‘80 e ‘90). Quindi è un po’ un elemento ciclico. Buffett direbbe che l’oro non ha un valore intrinseco calcolabile, dipende da quanto gli uomini gli attribuiscono. In effetti il suo prezzo è sensibile a fattori macro: inflazione, tassi reali (quando i tassi reali – tassi nominali meno inflazione – sono negativi, l’oro tende a salire perché il costo opportunità di detenerlo è basso; quando i tassi reali salgono, l’oro soffre perché conviene tenere obbligazioni che rendono bene piuttosto che oro che non rende nulla), forza del dollaro (l’oro è prezzato in dollari, un dollaro debole di solito accompagna un oro forte e viceversa, anche se nel 2024 questo legame si è indebolito).
Per un pubblico generalista, qual è quindi la chiave da portare a casa in stile Buffett? Probabilmente: non farsi ammaliare eccessivamente dall’oro. Può avere un ruolo, ma bisogna capire i suoi limiti. Non produce ricchezza, è una riserva statica. Se il mondo va ragionevolmente bene, le aziende e gli altri investimenti cresceranno più dell’oro. Se il mondo va malissimo, l’oro potrà salvarci il potere d’acquisto, ma in quell’evento saremmo comunque in una situazione poco piacevole (Buffett scherzò: “Se davvero pensi che tutto collasserà, compra terreni agricoli e un fucile, non oro”, alludendo al fatto che in scenari catastrofici estremi servirebbero beni utili e possibilità di difenderli).
In Italia, molti hanno amato l’oro come rifugio nelle epoche di alta inflazione (anni ‘70-’80) e ancora c’è chi tiene i vecchi marenghi o sterline d’oro di famiglia. È un patrimonio che negli anni ha preservato valore e fornito forse sicurezza psicologica. Buffett direbbe: va bene averne un po’ se ti fa dormire sereno, ma non puntare tutto lì, perché l’umanità progredisce costruendo imprese, innovando, lavorando – non accumulando lingotti. E l’obiettivo di un investimento di lungo termine è partecipare a quel progresso, non stare ai margini con un gettone dorato in mano. D’altronde, lo stesso Buffett ha avuto come maestro Ben Graham, il quale insegnava la distinzione tra investimento (che comporta analisi, sicurezza del capitale e rendimento adeguato atteso) e speculazione (comprare un asset sperando di venderlo a un prezzo maggiore, confidando in oscillazioni di mercato). Ai suoi occhi, l’oro rientra più nella seconda categoria: è un atto di speculazione sulla sfiducia verso le altre cose. Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato, ma non è costruire valore.
Quindi, in un portafoglio “buffettiano”, l’oro se compare lo fa in piccola dose, quasi controvoglia, e più come polizza che come investimento con aspettative di rendimento. Storia e numeri supportano questa prudenza: chi avesse messo tutto in oro 50 anni fa avrebbe oggi molto meno di chi avesse messo tutto in un indice azionario globale, nonostante almeno tre grosse crisi in quel mezzo secolo. L’oro ha mantenuto il passo con l’inflazione e ha avuto i suoi rally, ma ha perso ampiamente la gara con asset produttivi. E il mantra di Buffett è proprio privilegiare ciò che produce valore reale nel tempo. Il metallo giallo, per quanto affascinante e luccicante, per lui rimane “sordo” a questo richiamo.
Criptovalute: la nuova frontiera speculativa tra opportunità e pericoli
Nell’ultimo decennio, un nuovo tipo di asset è emerso sulla scena finanziaria globale: le criptovalute, con in testa Bitcoin. Questi asset digitali, decentralizzati e basati sulla tecnologia blockchain, hanno acceso entusiasmi e polemiche, generato fortune e rovinato risparmi. Warren Buffett, fedele alla sua natura prudente e basata sul valore tangibile, è uno dei più espliciti critici delle criptovalute. Le ha definite “veleno per topi al quadrato” riferendosi in particolare a Bitcoin, e ha dichiarato che non comprerebbe mai nemmeno un bitcoin nemmeno se glieli offrissero tutti per 25 dollari. Perché questa posizione così dura? E cosa possiamo capire delle criptovalute applicando la lente di Buffett? Proviamo a esaminare la questione.
Nascita delle criptovalute: Bitcoin e oltre
Bitcoin è nato nel 2009, creato da un misterioso inventore sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, come risposta alle logiche tradizionali della finanza e come tentativo di avere un sistema di denaro elettronico peer-to-peer indipendente dalle autorità centrali. Inizialmente era una curiosità per tecnofili e idealisti cypherpunk. Il suo valore nei primi anni era di pochi centesimi, poi pochi dollari. Nessuno, neanche i più ottimisti, avrebbe probabilmente immaginato che nel giro di un decennio sarebbe arrivato a valere decine di migliaia di dollari per singolo coin, con una capitalizzazione di mercato di centinaia di miliardi. Eppure, trascinato dalla logica di scarsità (ce ne saranno un massimo di 21 milioni) e dalla crescente attenzione mediatica, Bitcoin è decollato. Nel suo solco sono nate migliaia di altre criptovalute (Ethereum, Ripple, Litecoin, Dogecoin, e molte altre), ciascuna con caratteristiche peculiari, ma spesso con logiche di domanda e offerta simili.
Le criptovalute vengono viste da alcuni come “il nuovo oro digitale” (Bitcoin in particolare è definito dai sostenitori come riserva di valore per l’era digitale, una sorta di oro 2.0) o come investimenti rivoluzionari legati alla tecnologia blockchain che promette di cambiare molti settori (smart contract, finanza decentralizzata, NFT, etc.). Dal 2017 in poi, il pubblico generalista ha iniziato a interessarsi quando i prezzi di Bitcoin ed altre cripto hanno cominciato a salire in modo spettacolare. Ad esempio, Bitcoin da meno di 1.000 dollari a inizio 2017 salì fino a quasi 20.000 a fine di quell’anno, per poi crollare a ~3.000 nel 2018. Nuovo boom nel 2020-2021: partito da ~7.000 dollari a inizio 2020, ha toccato circa 64.000 dollari a novembre 2021, per poi di nuovo precipitare sotto i 17.000 nel 2022. Questa estrema volatilità è diventata il marchio di fabbrica delle criptovalute: oscillazioni del 10% in un solo giorno non sono affatto rare, cosa impensabile per valute tradizionali o per asset come l’oro (se l’oro si muove del 2-3% in un giorno è già una notizia significativa).
Buffett e il suo socio Charlie Munger hanno assistito a questi eventi con notevole scetticismo. Nella loro ottica, una valuta (o un asset) che sale da 1.000 a 20.000 e poi scende a 3.000 e così via non è un investimento razionale, ma un gioco d’azzardo. Essi paragonano il fenomeno a una bolla speculativa di quelle classiche (Munger ha paragonato Bitcoin alla “bolla dei tulipani” olandese del Seicento). Uno dei problemi principali che sollevano è che non c’è un valore intrinseco facile da determinare per le criptovalute: non generano cash flow, non sono legate a un’attività produttiva. Il loro prezzo dipende esclusivamente da quanto le persone sono disposte a pagarle. Questo in sé è vero anche per valute tradizionali in parte, ma almeno dietro l’euro o il dollaro c’è uno Stato che ne impone l’uso per le tasse, c’è un’economia sottostante. Dietro Bitcoin c’è la fiducia di una rete di utenti, nulla di più.
Volatilità e bolle speculative: dai boom ai crash delle cripto
Se c’è un settore dove la parola “bolla” è stata usata di frequente negli ultimi anni, è quello delle criptovalute. Abbiamo già accennato ai cicli boom-bust del 2017-2018 e 2020-2022. Per contestualizzare: chi avesse investito 1.000 € in Bitcoin all’inizio del 2017, avrebbe visto quel capitale salire a ~19.000 € a fine 2017, scendere a ~3.000 € a fine 2018, poi risalire a ~60.000 € valore equivalente nel 2021 e poi di nuovo giù intorno a ~15.000 € nel 2022. Emozioni forti garantite, ma anche un percorso da montagne russe che difficilmente rientra nella filosofia “lento e costante” di Buffett. In un decennio, in effetti, Bitcoin ha reso enormemente (chi è entrato prestissimo è diventato milionario con pochi spicci investiti all’inizio), ma quel percorso è stato imprevedibile e accompagnato da fallimenti clamorosi di piattaforme (pensiamo a Mt.Gox, un exchange che gestiva la maggior parte dei trade di Bitcoin fino al 2014, quando collassò a causa di un hack perdendo i fondi dei clienti). Più di recente, nel 2022, c’è stato il crack di FTX, un grande exchange, e di Luna/Terra (una criptovaluta “algoritmica” che avrebbe dovuto mantenere il peg col dollaro e invece si è azzerata). Insomma, il settore è ad altissimo rischio strutturalmente.
Buffett ha spesso sottolineato come queste dinamiche ricordino schemi da mania speculativa: persone che comprano non perché capiscono l’asset, ma perché sperano di rivenderlo a qualcuno a prezzo più alto in futuro (il classico Greater Fool Theory, la teoria del “pollo più grande”: puoi fare profitti finché riesci a trovare qualcuno più ingenuo disposto a comprare da te a prezzo maggiore). Egli ha dichiarato nel 2018: “Posso dire quasi con certezza che le criptovalute faranno una brutta fine”. Finora, nonostante i crolli, Bitcoin e altre non sono finite a zero come prevedono alcuni detrattori, ma di certo molti token minori lo hanno fatto e anche le principali hanno visto cadute rovinose (Bitcoin -65% nel 2022; Ethereum anche peggio in alcuni momenti). Buffett e Munger rimarcano che l’intera faccenda non è altro che speculazione, non investimento.
In termini di paragoni storici, la corsa alle criptovalute è stata accostata alla bolla dot-com: giovani società dot-com a fine anni ’90 salivano alle stelle senza profitti, solo sulla prospettiva futura, e crollarono quasi tutte. Però da quell’era emersero poi giganti come Amazon. Nel mondo cripto, i sostenitori dicono: è come internet, ci sarà volatilità ma la tecnologia blockchain rivoluzionerà tutto e le criptovalute più solide prospereranno nel lungo termine. Buffett è molto dubbioso: a suo parere, la blockchain può avere utilizzi, ma questo non dà valore automatico a una moneta digitale specifica. Un’azienda può usare la blockchain per certi servizi senza che Bitcoin o altre debbano valere di più. In pratica, non vede un moat o un vantaggio intrinseco che garantisca che una certa cripto sarà ancora lì fra 10-20 anni e soprattutto che sarà più preziosa di oggi. Al contrario, vede molti incentivi perversi: la facilità di creare nuove criptovalute (ce ne sono a migliaia), la mancanza di regolamentazione che espone a frodi o manipolazioni, l’uso improprio (riciclaggio, ransomware) che può attirare repressione normativa. Tutti fattori che rendono l’investimento in criptovalute più simile a una scommessa ad alto rischio che a un solido piano di wealth building.
Buffett e le criptovalute: scetticismo sul valore intrinseco
Buffett non ha peli sulla lingua riguardo a Bitcoin & co.: “Non valgono nulla. Non producono niente. Non puoi fare affidamento su di loro se non sulla speranza che qualcun altro li desideri più avanti”. Egli dice: se compri un ettaro di terra, quello produrrà magari mais ogni anno; se compri un appartamento, riceverai affitto; se compri una criptovaluta, quale flusso ti restituisce? Nessuno. Quindi il valore è solo nel sentimento che la circonda. Ha anche aggiunto: “Se mi offrissero il 100% di tutti i Bitcoin esistenti per 25 dollari, non li prenderei, perché poi che ne faccio? Dovrei rivenderli a qualcuno. Rimango con niente in mano comunque”. Il significato di questa iperbole è che lui non sa che farsene di un asset che non ha uso produttivo. Al contrario, se gli offrissero per X dollari tutte le terre agricole del paese, accetterebbe subito, perché quelle terre genererebbero cibo e dunque reddito.
Un’altra critica di Buffett riguarda la definizione stessa di moneta: una valuta dovrebbe essere un mezzo di scambio efficiente, una unità di conto e una riserva di valore ragionevolmente stabile. Le criptovalute fino ad ora sono usate più come asset speculativi che come vere valute per acquistare beni e servizi (salvo nicchie). La loro volatilità estrema le rende poco adatte come unità di conto (oggi vali 2 Bitcoin, domani 1, che senso ha?). Dunque per lui non assolvono neppure bene al compito di moneta.
Detto ciò, va riconosciuto che alcune persone hanno guadagnato cifre enormi con Bitcoin e altre cripto. Buffett risponderebbe: anche chi gioca alla roulette a volte fa il colpo grosso, ma non significa che fosse un investimento intelligente, piuttosto è fortuna o tempismo in un gioco rischioso. La domanda vera per un investitore è: posso analizzare razionalmente e prevedere in qualche misura il valore futuro di questo asset? Con un’azione posso stimare utili futuri, con un’obbligazione ho i flussi cedolari, con un immobile ho gli affitti attesi. Con Bitcoin cosa analizzo? Forse l’adozione, la rete, la scarsità. Ma tutto è altamente incerto e non quantificabile in termini tradizionali.
Per un pubblico generalista che si chiede se investire in criptovalute, Buffett offrirebbe probabilmente questo consiglio: trattatele, se proprio volete, come fareste con le scommesse, non come parte centrale del vostro portafoglio. Non rischierebbe mai somme importanti lì dentro. Charlie Munger (il braccio destro di Buffett) è stato ancora più drastico, dicendo che bisognerebbe addirittura bandirle perché nocive, paragonandole a una malattia. Buffett non è arrivato a tanto, ma certamente non ne è affascinato.
Va anche detto che le criptovalute esistono da un tempo relativamente breve (Bitcoin ha poco più di 14 anni di vita). Buffett, 94enne, ha visto molte novità andare e venire. Ricorda quando nei ‘60-’70 c’era la moda di comprare argento, poi di collezionare francobolli o oggetti da collezione come forma di investimento. Tutte cose che hanno fatto il loro corso. È possibilissimo che fra 10 anni le criptovalute di oggi non saranno più così rilevanti, magari evolveranno in altro, o saranno incorporate in sistemi regolamentati. Lui non vuole scoprirlo sulla pelle dei suoi soldi.
Naturalmente, c’è chi contesta la sua visione dicendo che “non capisce la tecnologia”. Ma Buffett ribatte: non c’è bisogno di capire i dettagli tecnici per vedere se qualcosa ha valore intrinseco. Lui ammette di non essere esperto di blockchain, ma non lo è neppure di come funziona internet nei bit e byte, eppure investe in Apple perché ne vede i profitti e l’ecosistema. Se vedesse i Bitcoin generare flussi di cassa stabili, cambierebbe idea; ma finché l’unica tesi è “il prezzo salirà perché altri lo vogliono”, resta contrario.
Dunque, seguendo la filosofia di Buffett, come dovremmo porci verso le criptovalute? Con estrema cautela e scetticismo, considerandole per quello che sono finora: una scommessa speculativa. Ciò non nega che possano esserci opportunità o che la blockchain sia un’innovazione significativa. Ma dal punto di vista di costruire ricchezza solida nel tempo – che è il nostro obiettivo ispirato a Buffett – le criptovalute per ora non offrono basi affidabili. Si tratta di asset volatili, non regolamentati, soggetti a mode (basti pensare a Dogecoin, nata per scherzo, promossa da Elon Musk su Twitter, schizzata alle stelle e poi in gran parte ridimensionata; eppure ha creato e distrutto fortune anch’essa). Un investitore prudente, orientato al valore, può benissimo decidere di starne fuori del tutto senza rimpianti. Buffett spesso paragona ignorare certi investimenti alla disciplina di non dover swingare ogni palla nel baseball: “non abbiamo chiamate di strike”, dice – ovvero, possiamo lasciare passare tante occasioni dubbie e aspettare quella giusta. Le criptovalute per lui sono palle da non battere. Se qualcun altro fa fuoricampo lì, pace. Lui ne farà in altri campi più familiari.
In definitiva, per un pubblico generalista il messaggio potrebbe essere: attenzione a non confondere la speculazione e il gioco d’azzardo con l’investimento. Le criptovalute, almeno sinora, ricadono più nella prima categoria. Non hanno fondamentali su cui fare affidamento, il loro valore potrebbe anche andare a zero se cambia la percezione generale. O potrebbero salire ancora, ma è una scommessa per cuori forti e portafogli che possono permettersi perdite importanti. Warren Buffett ha costruito la sua fortuna evitando di giocare d’azzardo, privilegiando scommesse quasi sicure su asset sottovalutati e produttivi. Seguire il suo approccio significa quindi non cedere al canto delle sirene delle ricchezze facili in cripto, e focalizzarsi su ciò che fornisce un margine di sicurezza e una logica economica solida.
Investimenti alternativi: oltre i mercati tradizionali
Oltre alle categorie classiche di cui abbiamo parlato, esiste un vasto mondo di investimenti alternativi. Il termine può riferirsi a molte cose: materie prime (diverse dall’oro, già trattato), arte, collezionismo, beni da lusso (vini pregiati, orologi, auto d’epoca), private equity e venture capital (investire in aziende non quotate, spesso start-up), hedge fund e strategie finanziarie non tradizionali, e persino asset “esotici” come boschi, diritti musicali, criptovalute stesse (di cui abbiamo già discusso a parte). In generale, ciò che non rientra in azioni, obbligazioni, liquidità, immobili e oro viene spesso etichettato come “alternativo”. Qual è la visione di Buffett su questo arcipelago? Possiamo riassumerla così: se un investimento alternativo non produce flussi di cassa e richiede di trovare un altro compratore disposto a pagare di più in futuro, allora è speculazione (simile a quanto detto su oro e cripto). Se invece consiste nel possedere un bene reale che genera qualcosa (fosse anche un terreno con legname, o una quota in una società privata che fa utili), allora rientra semplicemente negli investimenti classici di valore, solo che è fuori dai mercati regolamentati.
Cosa sono gli investimenti alternativi e perché attraggono
Negli ultimi decenni gli investimenti alternativi hanno guadagnato popolarità in parte perché i grandi investitori istituzionali (fondi pensione, dotazioni) li hanno abbracciati per diversificare oltre le azioni e obbligazioni, e in parte per il fascino e lo status che certi beni conferiscono. Ad esempio, l’arte: collezionare quadri o sculture non è solo una scelta finanziaria, ma anche culturale e di prestigio. Tuttavia, si sente spesso dire che l’arte può essere un ottimo investimento. Ci sono statistiche a supporto: secondo alcuni studi, l’arte contemporanea ha reso intorno al 5-7% annuo negli ultimi decenni, comparabile alle azioni in certi periodi. Alcuni quadri famosi acquistati a cifre modeste decenni fa oggi valgono milioni. Un caso eclatante, citato spesso, è quello del Salvator Mundi attribuito a Leonardo da Vinci: comprato nel 2005 per appena 1.175 dollari come opera da restaurare, rivenduto nel 2017 per 450 milioni di dollari in un’asta da Christie’s – il maggiore prezzo mai pagato per un dipinto. Un guadagno stratosferico, anche se legato a circostanze eccezionali (il riassegnamento a Leonardo, la competizione di collezionisti miliardari, ecc.). Analogamente, auto d’epoca come la Ferrari 250 GTO sono passate di mano a decine di milioni di dollari (un esemplare venduto a 70 milioni circa nel 2018, record per un’auto). Vini pregiati di annate leggendarie o whisky rari hanno visto impennate di valore: ad esempio alcune bottiglie di whisky Macallan del 1926 sono state battute all’asta per oltre 1 milione di sterline ciascuna.
Questi esempi fanno sognare, ma Buffett ci inviterebbe a notare una cosa: qui non c’è creazione di valore intrinseco, bensì trasferimento di valore da un acquirente all’altro. Il Salvator Mundi è certamente un’opera d’arte importante, ma perché valeva 1.175$ nel 2005 e 450 milioni nel 2017? Perché nel frattempo è cambiata la percezione (è diventato “forse un Leonardo”), è esplosa la ricchezza di super-collezionisti globali e c’è stata una fortissima domanda emotiva. Non c’è una “rendita” che il quadro produce. Se domani si scoprisse che non è di Leonardo, il valore precipiterebbe forse di nuovo. Questo somiglia molto a una speculazione basata su percezioni e rarità. Buffett difficilmente investirebbe in qualcosa del genere perché è fuori dalla sua circle of competence – non ha competenze nell’arte per dire quale artista emergente varrà di più, né vuole contare sulla moda o sul gusto futuro.
Tuttavia, Buffett non disdegna tutti gli alternativi a priori. Ad esempio, materie prime come petrolio o rame: Berkshire Hathaway ha investito sovente in aziende estrattive (che sono un modo indiretto di investire nella commodity, ma con flussi di cassa). Possedere direttamente barili di petrolio o tonnellate di rame non è pratico, ma investire in una compagnia petrolifera come Occidental Petroleum (di cui Buffett ha comprato grandi quote nel 2022) lo è, perché se il petrolio sale l’azienda guadagna di più e versa dividendi. Quindi Buffett preferisce un play legato alla commodity ma che produca reddito.
Private equity e venture capital: Buffett stesso è un investitore privato (Berkshire spesso compra aziende interamente, fuori dalla borsa). Egli ama le imprese solide, anche se non quotate. Quindi investire in un’impresa privata non quotata in sé non è affatto contro i suoi principi, anzi: è la sua attività principale. Ciò che potrebbe fargli storcere il naso sono certi veicoli di private equity caricati di debito che comprano e rivendono aziende in orizzonti brevi generando commissioni per i gestori – non esattamente investire per far crescere il business a lungo termine, bensì “financial engineering”. Buffett preferisce comprarsi l’azienda e tenerla per sempre, se va bene. Il venture capital (investire in startup innovative) è un gioco diverso, fatto di tante scommesse di cui poche vincenti generano la maggior parte dei ritorni. Non è mai stato il campo d’azione di Buffett: troppo fuori dal suo approccio di comprare ciò che ha già un track record di guadagni stabili. Però non significa che sia sbagliato – solo richiede un profilo diverso. Un investitore alla Buffett, se volesse approcciarsi, cercherebbe di identificare startup con vantaggi competitivi reali e management eccellente, ma anche qui, è molto più incerto che stimare Coca-Cola o American Express.
Hedge fund e strategie complesse: Buffett ha nel passato lanciato qualche frecciata agli hedge fund, soprattutto per i costi elevati (la famosa scommessa decennale l’ha fatta contro di loro, e l’ha vinta). Ha anche detto che spesso questi fondi fanno operazioni complicate che l’investitore comune non comprende e che non sempre aggiungono valore; inoltre molte strategie alternative (come trading algoritmico, arbitraggio, ecc.) possono generare benefici di breve periodo ma raramente persistono per decenni. Dunque, il suo consiglio è starne alla larga a meno di non conoscere veramente chi c’è dietro e avere fiducia eccezionale.
Opportunità e rischi nel non convenzionale
Gli investimenti alternativi possono offrire grandi rendimenti, ma spesso a costo di grandi rischi e illiquidità. Ad esempio, l’arte di fascia alta ha reso bene, ma è altamente illiquida (puoi rivendere un Monet velocemente? Forse no, devi aspettare un’asta importante, trovare collezionisti giusti). Lo stesso vale per auto d’epoca o vini: mercati di nicchia, con poche transazioni e grandi differenze tra un pezzo e l’altro. Inoltre, servono competenze specialistiche: un collezionista esperto può fiutare l’affare in un lotto di cantina storica o in un giovane artista, ma l’uomo della strada rischia di comprare il quadro sbagliato o il vino sbagliato e trovarsi con un bene che non apprezza. Buffett direbbe: se vi interessano questi campi e siete competenti, potete anche trattarli come investimenti, altrimenti meglio vederli come hobby di lusso.
Ci sono poi investimenti come i beni da collezione di cultura pop (fumetti, figurine, ecc.). Curiosamente, hanno avuto rivalutazioni notevoli: ad esempio, alcune carte Pokémon rare o figurine sportive d’epoca sono state vendute a centinaia di migliaia di dollari. Ancora una volta, valore perché c’è scarsità e un collezionista motivato. Buffett, che pure da giovane collezionava francobolli e monete per rivenderli con profitto, potrebbe trovare divertente l’analogia, ma oggi da grande investitore probabilmente non impiegherebbe decine di milioni in figurine, perché è consapevole della mancanza di fondamenta economiche.
In termini di portafoglio, gli investimenti alternativi spesso hanno il pregio di essere de-correlati dai mercati tradizionali. Ad esempio, il valore di un Picasso non dipende dall’andamento delle borse; se c’è una recessione, forse i prezzi d’asta d’arte di lusso possono persino salire (per dinamiche di spostamento di capitali, ecc.). Questa diversificazione può teoricamente migliorare il profilo rischio-rendimento di un portafoglio. Non a caso grandi investitori istituzionali dedicano una parte (minore) del patrimonio a private equity, infrastrutture, hedge fund, ecc. Una regola comune è: più l’investitore è ricco e con orizzonte lungo, più può permettersi di allocare una porzione agli alternativi, perché anche se restano illiquidi per anni non ha problemi e può attendere. Buffett come persona fisica non investe in vino o arte, ma la sua società Berkshire ha investimenti alternativi in un certo senso: possiede aziende non quotate di ogni tipo (dagli assicuratori alle gioiellerie), ha energia, ferrovie – tutte asset reali.
Va notato che il termine “alternativo” è quasi fuorviante con Buffett: per lui esiste ciò che ha senso economico e ciò che non ne ha. Non importa l’etichetta. Se comprassi un bosco per il taglio sostenibile del legno, per Buffett non è “alternativo”: è un business tangibile con flussi. Se compro diamanti in cassaforte sperando salgano, somiglia all’oro, puro asset di fiducia. Con i diamanti, tra l’altro, si è visto come non abbiano avuto la rivalutazione dell’oro (mercato controllato, offerta aumentata nel tempo, meno liquidi), a conferma che non tutto ciò che è “prezioso” sulla carta sale.
Un altro esempio: i beni di lusso da investimento. C’è chi compra orologi Rolex o Patek Philippe in edizione limitata e li considera investimenti (negli ultimi anni certi modelli sono saliti di valore, poi però nel 2022-23 hanno ridimensionato i prezzi sul mercato secondario). Anche qui: il valore sta nell’esclusività e nel brand. Buffett investirebbe piuttosto nella società che produce beni di lusso (ad esempio, investire in LVMH o Hermes in borsa, se il prezzo è giusto), che non nel bene in sé. Difatti, possedere quote di un’azienda del lusso dà diritto a profitti su migliaia di vendite di prodotti esclusivi, un flusso in crescita se il settore va bene, mentre possedere uno di quei prodotti è solo un partecipare emotivamente al trend.
Alla fine, un investitore ispirato da Buffett può sicuramente esplorare investimenti alternativi, ma deve applicare la stessa disciplina di valore: capire cosa fa guadagnare questo investimento?; perché qualcun altro dovrebbe pagarlo di più domani, c’è una vera creazione di valore o solo domanda collezionistica?; quali sono i costi di transazione e i rischi specifici (falsi, furti, costi di manutenzione)?.
Un altro rischio negli alternativi è la valutazione: con azioni e obbligazioni abbiamo prezzi di mercato quotidiani, magari volatili ma trasparenti. Con un quadro o una start-up privata, il valore è stimato e realizzato solo quando vendi. Questo può portare ad illusione di stabilità (lo tieni iscritto a bilancio al valore che hai pagato, ma magari il vero valore di realizzo sarebbe diverso). Molti fondi di private equity usano modelli di valutazione che tendono a smussare la volatilità – salvo poi dover svalutare bruscamente in crisi (come 2022 per alcune start-up tech). Buffett preferisce la verità nuda e cruda dei prezzi di mercato? In parte sì, anche se a volte la volatilità del mercato è esagerata, lui la vede come opportunità di acquisto.
In conclusione, gli investimenti alternativi sono un territorio dove sicuramente esistono opportunità di guadagno elevate, ma riservate spesso a chi ha conoscenze specialistiche o capitale paziente per immobilizzare. Buffett incarna l’idea di investire solo in ciò che conosci bene. Se uno ha passione e competenza in un settore alternativo, potrebbe creare la sua nicchia di successo (ci sono collezionisti d’arte o esperti di vini che hanno fatto ottimi affari). Ma se uno ci entra solo perché “ha sentito dire” che rende tanto, rischia di fare la fine di chi comprava azioni senza conoscerle durante le bolle. Il pensiero di Buffett ci riporterebbe alla realtà: i rendimenti alti di qualcosa nel passato spesso riflettono un punto di ingresso basso e fortunato; entrarci dopo che è salito molto può rivelarsi deludente. Ciò vale per ogni asset, compresi quelli alternativi.
Dunque, meglio approcciare gli alternativi con curiosità ma prudenza. Un investitore potrebbe destinare una piccola parte del suo portafoglio (diciamo meno del 10%) a qualcosa di alternativo di cui è appassionato e competente, trattandolo un po’ come investimento e un po’ come hobby. Ma il grosso del capitale, se seguiamo Buffett, andrà nelle cose semplici e provate: aziende solide, obbligazioni sicure quando servono, magari un immobile, cash per le opportunità. Il tutto con orizzonte di anni o decenni.
Gli investimenti alternativi sono il “pepe” – possono dare gusto, ma non devono costituire l’intero pasto finanziario. La portata principale rimane quella che da sempre alimenta la ricchezza: l’economia reale, le imprese, gli interessi composti che lavorano nel tempo.
L’arte di investire nel lungo termine: conclusioni in stile Buffett
Attraversando queste diverse categorie di investimento – azioni, obbligazioni, fondi, ETF, immobili, oro, criptovalute e alternativi – emergono alcuni temi comuni, filo conduttore del pensiero di Warren Buffett. In chiusura, vale la pena ribadirli perché sono i principi guida che un investitore dovrebbe tenere a mente per costruire ricchezza nel tempo in maniera saggia e sostenibile:
1. Pensare e agire da proprietari, non da speculatori. Che si tratti di comprare azioni o un appartamento da mettere a reddito, l’approccio di Buffett è valutare l’investimento per la sua capacità intrinseca di generare valore e flussi, non per la speranza di rivenderlo a breve a qualcuno ad un prezzo maggiore. Investire vuol dire diventare proprietari di qualcosa – un pezzo di azienda, un immobile, ecc. – e come tali ci si deve concentrare sulla salute e prospettive di quel bene, non sulle oscillazioni momentanee del suo prezzo. Buffett compra società di cui sarebbe felice se il mercato chiudesse per 10 anni: questa metafora estrema evidenzia il livello di convinzione e orizzonte che applica. Per l’investitore comune, significa privilegiare asset solidi che si comprendono bene e ignorare la tentazione del mordi-e-fuggi o delle sirene speculative.
2. Il lungo termine come alleato. Buffett è l’investitore a lungo termine per antonomasia. Ha detenuto alcune azioni per decenni (Coca-Cola da oltre 35 anni, American Express e Moody’s simili). Crede fermamente che la pazienza sia una virtù remunerativa: “Il mercato è un dispositivo che trasferisce denaro dagli impazienti ai pazienti”, ama dire. La storia dei mercati supporta questa affermazione: chi ha mantenuto investimenti diversificati su archi temporali lunghi è quasi sempre stato premiato, mentre chi ha cercato di fare timing entrando e uscendo freneticamente spesso ha ottenuto risultati inferiori o disastrosi. Il caso dei “Dow 66 a 11.497” citato in apertura è emblematico: un intero secolo di crescita che pure alcuni investitori sono riusciti a perdersi per via di comportamenti erratici. Dunque Buffett ci insegna a allungare l’orizzonte mentale: non giorni o mesi, ma anni e lustri. Ciò aiuta anche a sopportare i momenti difficili, sapendo che “anche questo passerà” e che l’importante è che i fondamentali restino validi. La pazienza inoltre permette di sfruttare il potente interesse composto: piccoli ritorni accumulati e reinvestiti anno dopo anno producono effetti straordinari nel tempo. Buffett stesso è un caso vivente: oltre il 99% della sua enorme fortuna si è generato dopo i 50 anni, grazie al continuo reinvestimento dei profitti ottenuti in gioventù e alla capacità di restare “nel gioco” per oltre sette decenni di attività. Questo sottolinea che costruire ricchezza è una maratona, non uno sprint.
3. Emotività sotto controllo: essere avidi quando gli altri hanno paura (e viceversa). Uno dei motti più famosi di Buffett è proprio questo: “sii timoroso quando gli altri sono avidi, e avidi quando gli altri sono timorosi”. In pratica, invita a fare il contrario della massa, perché spesso la massa si lascia guidare dalle emozioni in modo irrazionale. Lo abbiamo visto negli esempi: nel 2000 tutti volevano le dot-com, poi nel 2002 nessuno le voleva neanche a prezzi stracciati; nel 2007 la gente comprava case senza badare al prezzo, nel 2009 svendeva portafogli azionari in preda al panico. Chi è rimasto lucido, come Buffett, ha potuto trarre vantaggio. Essere “contrarian” però non significa fare apposta il contrario sempre, significa avere un giudizio indipendente. Buffett si appoggia ai dati e all’analisi: se vede valore ed ha liquidità, non ha paura ad andare controcorrente (ad esempio investendo miliardi in Goldman Sachs quando il sistema finanziario tremava nel 2008, il che gli ha fruttato ottimi ritorni quando la situazione si è normalizzata). Al contempo, se vede euforia ingiustificata, preferisce farsi da parte (come fece evitando la bolla internet). Per l’investitore medio, questo insegnamento si traduce in: non farsi trascinare dall’entusiasmo né farsi paralizzare dal panico. Mantenere la disciplina, magari applicando regole automatiche (per esempio il piano di accumulo: investire somme fisse a intervalli regolari, comprando più quote quando i prezzi sono bassi e meno quando sono alti, così da mediare il costo e sfruttare i ribassi anziché temerli). E ricordare le parole di Buffett durante le crisi: “Le aziende solide stabiliranno nuovi record di utili tra 5, 10, 20 anni” – un invito a non perdere di vista la tendenza di fondo anche nei momenti bui.
4. Importanza del valore e del margine di sicurezza. Buffett è un value investor, nel senso originario di comprare un euro di valore a 50 centesimi, per così dire. Ciò implica la ricerca di opportunità dove il prezzo di mercato è inferiore al valore intrinseco calcolato. E per proteggersi dagli errori di stima, Buffett applica un margine di sicurezza: se pensa che un’azienda valga 100 per azione, difficilmente la pagherà più di 70-80. Così, se ha sbagliato qualche conto o se succede un imprevisto, c’è un cuscinetto. Questo concetto, mutuato dal suo maestro Ben Graham, è fondamentale per qualsiasi investimento, non solo azioni: vale per l’immobile (comprarlo a un prezzo ragionevole rispetto agli affitti che genera), per i fondi (non pagare commissioni esagerate che divorano i rendimenti), ecc. Evita di sovrapagare anche gli asset di moda. Buffett ama gli affari di qualità, ma anche “una società meravigliosa a un prezzo giusto piuttosto che una società giusta a un prezzo meraviglioso”, il che sottolinea che qualità e valore devono bilanciarsi. L’insegnamento per noi è: fai i compiti, cerca di capire qual è un prezzo equo per ciò che stai comprando, e non farti prendere dalla FOMO (fear of missing out) pagando qualunque cifra. Meglio perdere un’opportunità che entrare a un prezzo troppo alto che pregiudica i rendimenti futuri.
5. Diversificazione sì, ma senza perdere di vista ciò che si possiede. Buffett personalmente mantiene un portafoglio concentrato di pochi grandi investimenti convintamente scelti. Ma sa che l’investitore medio non ha la sua abilità nel selezionare, quindi raccomanda la diversificazione attraverso fondi indice. La diversificazione riduce il rischio di eventi avversi specifici – è una sorta di “margine di sicurezza” portato al portafoglio intero. Ci protegge dall’errore su un singolo titolo o settore. Tuttavia, diversificare non significa comprare a caso di tutto. Buffett scherzava: “la diversificazione è una protezione contro l’ignoranza”, intendendo che se non sai valutare, diversifica; se sai davvero quel che fai, non ti servono centinaia di titoli. Per il pubblico generalista, il messaggio è di trovare un buon equilibrio: con strumenti come ETF e fondi indicizzati, oggi è facile e sensato avere un’ampia esposizione (mercati globali, vari settori). Ma al tempo stesso, mantieni qualità negli asset: diversificare non salva da scelte intrinsecamente cattive (ad esempio, avere 50 criptovalute diverse non riduce il rischio se tutte sono di dubbio valore). Meglio diversificare dentro la cerchia di investimenti ragionevoli: un mix di azioni globali, un po’ di obbligazioni di qualità, forse immobili, e un tocco di alternativi se si vuole – questo già copre tante basi. Buffett suggerisce al pubblico: un fondo S&P 500 e qualche titolo di Stato, e sei più avanti del 90% degli investitori. In effetti, semplicità spesso vuol dire efficacia.
6. Tenere i costi bassi. Abbiamo visto quanto Buffett insista sui costi di gestione e commissioni. Ogni euro pagato a intermediari è un euro in meno che comporrà interessi per noi. Su orizzonti di 30 anni, anche un 1% annuo di costo può erodere enormemente il montante finale. Perciò, preferire strumenti efficienti (ETF a basso costo, conti titoli con commissioni ridotte, ecc.). Buffett piace ricordare che Wall Street spesso guadagna più degli investitori stessi se questi non stanno attenti. Ad esempio, un fondo con 2% di costo annuo, in 20 anni, anche se facesse come il mercato lordo, consegnerebbe all’investitore quasi 40% in meno di valore accumulato rispetto all’indice senza costi, a causa dell’effetto composto delle fee. Lui, con la sua società, ha prosperato mantenendo spese molto inferiori a quelle tipiche dei fondi (Berkshire Hathaway reinveste gli utili invece di pagarli via, e non preleva commissioni dai soci se non costi minimi operativi). Emulare ciò significa cercare sempre l’opzione di investimento più cost-effective. Nell’era attuale, fortunatamente, abbiamo possibilità che una generazione fa non c’erano: ETF a 0,07% annuo, piattaforme di trading a costi quasi zero, ecc. Sfruttiamole, perché ogni risparmio è rendimento in più per noi.
7. Restare nel proprio campo di competenza. Buffett attribuisce moltissima importanza alla circle of competence, la sfera di ciò che si conosce. Non investire in business che non capisci, è una sua regola. Ciò non vuol dire non studiare mai cose nuove, ma di non mettere soldi in qualcosa che appare oscuro o troppo complesso sperando vada bene. Per il risparmiatore medio, questo può voler dire: se non capisci come funziona esattamente un derivato o un’obbligazione strutturata, forse meglio starne fuori. Se non sai leggere un bilancio, forse meglio l’ETF che affida il compito a un indice, anziché fare stock picking. Man mano che la competenza cresce, si potrà ampliare il campo. Buffett a 30 anni non investiva in tecnologia, oggi a 90 è socio di maggioranza di Apple in pratica; ma l’ha fatto quando quell’azienda era divenuta più comprensibile nei suoi fondamentali (ha flussi enormi, brand, ecosistema – non è più una incognita sperimentale). In breve: non avere paura di dire “no, grazie” a un investimento perché è fuori dalla tua portata concettuale. Ci sono tanti modi di fare soldi nel mondo, non serve per forza imbarcarsi nel più astruso.
8. Temperamento e formazione continua. Buffett dice che per avere successo negli investimenti non serve un QI stratosferico, serve piuttosto il giusto temperamento. Cioè disciplina, autocontrollo, logica, capacità di non farsi sopraffare dalle emozioni. E inoltre una volontà di imparare costantemente. Lui stesso è un avido lettore e studioso di imprese, legge bilanci per ore ogni giorno anche alla sua età. L’investimento è un campo in cui nessuno è mai arrivato: i mercati cambiano, nascono settori nuovi, e bisogna restare informati. Un investitore individuale dovrebbe dedicare tempo a educarsi finanziariamente – magari non a livello tecnico elevatissimo, ma capire i concetti base, leggere libri dei maestri (Buffett consiglia “L’Investitore Intelligente” di Benjamin Graham, ad esempio). E poi sviluppare calma: spesso la decisione migliore è non fare nulla in risposta a un evento di breve termine, ma mantenere la strategia. Pochi hanno questa pazienza. Buffett ne ha da vendere, infatti spesso guadagna perché altri l’hanno persa.
In definitiva, investire come Warren Buffett non significa copiare il suo portafoglio, ma adottarne i principi e l’atteggiamento mentale. Vuol dire avere fiducia che nel lungo periodo l’economia produce progresso e ricchezza, e che partecipando in modo ragionato a questo processo – possedendo quote di imprese, immobili, asset reali – anche noi possiamo beneficiare di tale crescita. Vuol dire anche accettare che non esistono pasti gratis: rendimenti elevati comportano rischio, e se qualcosa sembra troppo bello per essere vero quasi sempre lo è. La storia è piena di mode finanziarie e bolle: chi mantiene una bussola di valore e di prudenza le attraversa indenne e anzi ne esce rafforzato, chi si lascia sedurre dall’arricchimento facile spesso naufraga.
Buffett a 94 anni è ancora sulla breccia, e la sua azienda tocca nuovi massimi di valore – miglior esempio non c’è della potenza di un approccio orientato al lungo termine. “Time in the market beats timing the market” recita un detto: il tempo passato nel mercato batte il tentativo di azzeccare i momenti giusti di entrata e uscita. Buffett incarna questo concetto vivendo e investendo con orizzonti di decenni.
Per concludere, possiamo immaginare Warren Buffett offrire una sintesi semplice al lettore: Investi in ciò che capisci, non prendere rischi che non puoi permetterti, diversifica il giusto, tieni basse le spese, e soprattutto lascia che il tempo e la magia dell’interesse composto lavorino per te. I mercati avranno alti e bassi, ma se sarai paziente e disciplinato, parteciperai alla crescita generale e ne uscirai vincitore. Questo è un messaggio di ottimismo razionale: la ricchezza non si crea in un giorno, ma con anni di perseveranza. Come un contadino che pianta un albero sapendo che darà ombra e frutti ai posteri, l’investitore deve saper aspettare. Chi lo fa, un giorno si troverà seduto all’ombra confortevole di quegli alberi finanziari piantati tanto tempo prima.
E come direbbe l’Oracolo di Omaha, “il momento migliore per piantare un albero era 20 anni fa. Il secondo momento migliore è adesso.” Non è mai troppo tardi per iniziare ad investire con saggezza: il lungo termine prima o poi arriva, e come sarà la nostra situazione finanziaria in quel futuro dipenderà in gran parte dalle scelte pazienti e ponderate che facciamo oggi. Con questo spirito, orientato al valore e alla resilienza, ogni risparmiatore può aspirare a costruire la propria prosperità, un mattone (o un’azione) alla volta, proprio come farebbe Warren Buffett.
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