Inflazione: cause, effetti e come affrontarla
Benzina, bollette e spesa quotidiana più care: l’inflazione è tornata al centro dell’attenzione, riportando alla ribalta un fenomeno economico che incide sul potere d’acquisto di famiglie e imprese. Dopo anni di prezzi stabili o in lieve crescita, il recente balzo del costo della vita ha fatto riscoprire a molti il significato concreto di inflazione. In termini semplici, si tratta dell’aumento generalizzato dei prezzi di beni e servizi nel tempo.
Questo articolo offre un’analisi completa dell’inflazione, esplorandone la definizione, le cause storiche ed economiche, le principali teorie interpretative e gli impatti tangibili sulla vita quotidiana e sul sistema economico. L’analisi toccherà le conseguenze per i bilanci familiari e aziendali, gli effetti sui salari, sui mercati finanziari e sui tassi di interesse. Verranno poi esaminate le strategie di politica monetaria e fiscale messe in campo per contrastare l’aumento dei prezzi. Uno sguardo finale sarà dedicato alle dinamiche recenti a livello globale e al caso italiano, per contestualizzare il fenomeno nella realtà odierna.
Cos’è l’inflazione?
Il termine inflazione indica un aumento prolungato e generalizzato del livello medio dei prezzi di beni e servizi in un’economia. In altre parole, col passare del tempo una data somma di denaro perde potere d’acquisto, poiché con la stessa quantità di moneta si possono comprare meno beni e servizi rispetto al passato. Il tasso di inflazione esprime in percentuale questa variazione dei prezzi su base annua, tipicamente calcolata attraverso l’indice dei prezzi al consumo. Ad esempio, un’inflazione annua del 5% significa che, se all’inizio dell’anno con una certa somma (ad esempio 1000 euro) si potevano acquistare 10 unità di un paniere di beni e servizi, dopo dodici mesi con quegli stessi 1000 euro se ne potranno acquistare solo circa 9,5, dato che nel frattempo i prezzi sono saliti.
L’inflazione non riguarda variazioni isolate di singoli prezzi: implica un aumento che interessa molti prezzi contemporaneamente. Se cresce solo il prezzo di un bene specifico (ad esempio la frutta a causa di un evento meteorologico avverso), non si parla di inflazione generalizzata ma di un rincaro settoriale. Al contrario, si ha inflazione quando la maggior parte dei beni e servizi registra aumenti significativi. L’opposto dell’inflazione è la deflazione, ovvero una diminuzione prolungata e generalizzata dei prezzi, fenomeno anch’esso pericoloso perché può indurre le famiglie a rinviare gli acquisti nella speranza di prezzi più bassi in futuro, deprimendo così l’economia.
Gli istituti di statistica misurano l’inflazione attraverso panieri di beni rappresentativi dei consumi medi delle famiglie. In Italia l’ISTAT pubblica ogni mese l’indice NIC (per l’intera collettività) e l’IPCA armonizzato a livello europeo, che indicano di quanto variano i prezzi rispetto all’anno precedente. Spesso si distingue anche l’inflazione di fondo (core inflation), calcolata escludendo dal paniere i beni più volatili come energia e alimentari freschi, per evidenziare la tendenza di fondo dei prezzi al netto di oscillazioni temporanee. Un valore moderato di inflazione è considerato fisiologico in un’economia in crescita, mentre variazioni eccessivamente elevate o negative sono motivo di preoccupazione per le autorità economiche.
Cause dell’inflazione
Le ragioni alla base dell’inflazione possono essere diverse, ma in generale si possono ricondurre a squilibri tra domanda e offerta di beni, a shock sui costi di produzione o a fattori monetari. Una prima tipologia è la cosiddetta inflazione da domanda: si verifica quando la domanda aggregata di beni e servizi in un’economia supera la capacità produttiva e l’offerta disponibile. In questa situazione, i consumatori sono disposti a pagare di più pur di ottenere i beni desiderati, e i venditori possono alzare i prezzi sfruttando l’eccesso di domanda. Un esempio può essere un boom dei consumi sostenuto da politiche espansive o da un’ampia disponibilità di credito: se la produzione non riesce a tenere il passo, i prezzi tenderanno a salire. Questa dinamica è nota anche come “troppa moneta che rincorre troppo pochi beni”, per citare una celebre sintesi monetarista del fenomeno.
All’opposto, si parla di inflazione da costi (o da offerta) quando l’aumento generale dei prezzi è innescato dall’incremento dei costi di produzione o da una riduzione dell’offerta di beni. Ciò può avvenire, ad esempio, a causa di shock esterni come un brusco aumento del prezzo delle materie prime (petrolio, gas, cereali, ecc.), eventi climatici avversi, guerre o altre situazioni che ostacolano la produzione e l’approvvigionamento. In questi frangenti, anche senza un aumento della domanda, le imprese scaricano sui listini i maggiori costi di energia, trasporti o materie prime, generando inflazione. Questo tipo di inflazione è spesso definito “importata” nei paesi che dipendono dall’estero per l’energia e altre risorse: ad esempio, un rincaro del petrolio a livello internazionale o una forte svalutazione della valuta nazionale (che rende più costose le importazioni) si traducono in un aumento generalizzato dei prezzi interni.
Un altro elemento chiave sono le aspettative di inflazione. Se imprese e lavoratori si aspettano prezzi in crescita in futuro, tenderanno ad adeguare preventivamente listini e salari, alimentando effettivamente l’inflazione attesa. Questo meccanismo può innescare una spirale prezzi-salari: i lavoratori chiedono aumenti per tutelare il potere d’acquisto, le imprese alzano ulteriormente i prezzi per compensare i maggiori costi del lavoro, e così via. Le aspettative e le dinamiche salariali hanno un ruolo importante nel rendere persistente l’inflazione, una volta avviata.
Dal punto di vista monetario, una crescita eccessiva della quantità di moneta in circolazione rispetto all’economia reale è un potenziale fattore scatenante di inflazione. Come affermava l’economista Milton Friedman, “l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario”, sostenendo che quando la base monetaria cresce molto più della produzione di beni e servizi, inevitabilmente i prezzi tendono a salire. La teoria quantitativa della moneta, già formulata nel XVIII secolo da David Hume e ripresa dai monetaristi negli anni Sessanta, sostiene che a parità di altri fattori un raddoppio della massa monetaria porta grosso modo a un raddoppio dei prezzi, annullando i benefici reali di avere più moneta in tasca. Il monetarismo attribuisce dunque alle banche centrali la responsabilità di mantenere stabile il valore della moneta, evitando di “stampare” denaro in eccesso.
Va detto, tuttavia, che il legame tra offerta di moneta e inflazione non è meccanico. Molti economisti fanno notare che nelle economie moderne l’offerta di moneta effettiva dipende in larga misura dalla domanda di credito nel sistema finanziario e non è interamente controllata dalle banche centrali. Ad esempio, se aumentano i prezzi delle materie prime, le imprese potrebbero richiedere più finanziamenti per pagare i maggiori costi, e le banche concederanno più prestiti creando nuovi depositi, costringendo la banca centrale ad assecondare la maggiore domanda di base monetaria. Inoltre, dopo la crisi del 2008, le banche centrali hanno immesso enormi quantità di liquidità tramite programmi di acquisto di titoli (il cosiddetto quantitative easing) senza tuttavia generare un aumento proporzionale dell’inflazione, segno che altri fattori (come la debolezza della domanda o la globalizzazione) mantenevano i prezzi al palo. Ciò suggerisce che l’inflazione non dipende solo dalla moneta in circolazione, ma anche dal contesto economico reale e dalle aspettative degli agenti.
La storia economica offre numerosi esempi delle diverse cause dell’inflazione. Un caso estremo è l’iperinflazione che colpì la Repubblica di Weimar in Germania nel 1923: la situazione sfuggì talmente di mano che la moneta si svalutò in modo vertiginoso, al punto che per comprare beni di prima necessità bisognava portare con sé carretti pieni di banconote. In quel frangente l’emissione incontrollata di moneta per finanziare il debito di guerra e le riparazioni belliche fu tra le principali cause dell’esplosione dei prezzi. Decenni più tardi, negli anni Settanta, molte economie occidentali sperimentarono tassi di inflazione elevatissimi a seguito dei due shock petroliferi del 1973 e del 1979: il prezzo del greggio quadruplicò in pochi mesi, generando un’inflazione da costi diffusa a livello globale. In Italia l’inflazione balzò in doppia cifra, superando stabilmente il 20% a metà degli anni Settanta. Le politiche economiche dell’epoca contribuirono ad alimentare la spirale: i salari venivano adeguati automaticamente ai prezzi tramite la scala mobile, e la banca centrale finanziava ampi disavanzi statali, aumentando la liquidità nel sistema. Solo con dure manovre di aggiustamento nei primi anni Ottanta l’inflazione italiana venne gradualmente riportata sotto controllo.
Le principali teorie sull’inflazione
Nel corso del tempo, gli economisti hanno sviluppato diverse teorie per spiegare l’origine e la dinamica dell’inflazione. Non esiste una visione unica completamente condivisa, poiché l’inflazione può scaturire da molteplici fattori e ogni approccio enfatizza aspetti diversi del fenomeno.
Una scuola di pensiero di grande influenza è quella monetarista, rappresentata da Milton Friedman e Anna Schwartz. Secondo Friedman, “l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario”. In quest’ottica, la principale causa dell’aumento generale dei prezzi risiede in un’eccessiva crescita della quantità di moneta rispetto all’offerta di beni: troppa moneta in circolazione finisce per far salire i prezzi. La teoria quantitativa della moneta, già formulata nel XVIII secolo da David Hume e ripresa dai monetaristi negli anni Sessanta, sostiene che al raddoppiare della massa monetaria, a parità di altri fattori, i prezzi raddoppierebbero anch’essi, lasciando invariato il potere di acquisto reale. Il monetarismo enfatizza quindi il ruolo delle banche centrali nel controllare il livello generale dei prezzi.
Un altro approccio è di matrice keynesiana. John Maynard Keynes, e successivamente gli economisti keynesiani, hanno posto l’accento sul ruolo della domanda aggregata e sul concetto di output gap (differenza tra produzione effettiva e potenziale). In condizioni di economia surriscaldata – ad esempio disoccupazione molto bassa e utilizzo pieno della capacità produttiva – si genera pressione al rialzo sui salari e sui prezzi. La celebre curva di Phillips, elaborata alla fine degli anni ’50, descriveva una relazione inversa tra inflazione e disoccupazione: quando la disoccupazione è molto bassa, l’inflazione tende a salire, e viceversa. In pratica, per stimolare la crescita e l’occupazione si rischia di pagare il prezzo di una maggiore inflazione. Negli anni ’70 questa relazione si indebolì a causa degli shock da offerta, portando gli economisti a riconoscere l’importanza delle aspettative: se i lavoratori e le imprese si aspettano inflazione, la incorporano nei contratti e la curva di Phillips si sposta verso l’alto. Da qui nacque il concetto di tasso naturale di disoccupazione (o NAIRU, tasso di inflazione non accelerante), suggerendo che esiste un livello oltre il quale spingere la disoccupazione al di sotto del suo valore “naturale” produce solo più inflazione, senza benefici occupazionali duraturi.
Vi è poi la cosiddetta teoria fiscale dell’inflazione, che punta il riflettore sulla sostenibilità delle finanze pubbliche. Secondo questa prospettiva, se i governi accumulano debiti elevati e i cittadini perdono fiducia nella loro capacità di ripagarli senza ricorrere alla stampa di moneta, allora l’inflazione può esplodere come forma di “tassa occulta” sul pubblico. In altre parole, un deficit di bilancio fuori controllo può condurre a un aumento dei prezzi perché si ritiene (o si teme) che la banca centrale monetizzerà il debito pubblico o che, in mancanza di altre vie, il valore reale del debito verrà ridotto tramite l’inflazione. Questo tipo di dinamica è stato osservato in diversi casi storici di inflazione elevata legata a crisi fiscali.
Da ultimo, nelle discussioni più recenti si è parlato di inflazione da profitti. Alcuni economisti hanno sottolineato che, in particolari congiunture, le imprese possono mantenere o aumentare i propri margini di profitto contribuendo all’inflazione. Ad esempio, se i costi aumentano del 5% ma un’azienda alza i prezzi del 10%, la differenza extra alimenta un’inflazione “da profitti”. Analisi condotte sull’Eurozona suggeriscono che nel 2022 l’incremento dei margini di profitto abbia contribuito per quasi tre punti percentuali all’inflazione registrata, sebbene in Italia tale effetto sia stato più contenuto. Questo tema è oggetto di dibattito: altri studiosi ribattono che l’aumento dei profitti sia più una conseguenza che una causa dell’inflazione (ovvero, “profitti da inflazione” anziché “inflazione da profitti”). Ad ogni modo, la discussione evidenzia come in ogni fase storica l’inflazione possa avere componenti e driver specifici, richiedendo analisi caso per caso.
Effetti sui bilanci familiari e sui consumi
L’inflazione ha conseguenze immediate sul potere d’acquisto delle famiglie. Quando i prezzi aumentano più rapidamente dei redditi, il tenore di vita tende a peggiorare perché con lo stesso stipendio si possono comprare meno beni e servizi. Ad esempio, se uno stipendio annuo cresce del +5% in termini nominali ma nello stesso periodo i prezzi sono aumentati del +9%, il reddito reale (cioè il suo potere d’acquisto) risulta di fatto ridotto di circa quattro punti percentuali. Questo effetto è particolarmente gravoso per chi vive di redditi fissi (come pensionati o lavoratori con salari non indicizzati) e per chi destina gran parte del proprio budget ai beni essenziali soggetti a rincari. Nel 2022 in Italia, caratterizzato da un’inflazione eccezionalmente alta, l’impatto è stato più forte per le famiglie a basso reddito (+12,1% il tasso annuo medio dei prezzi affrontato da questo gruppo) rispetto a quelle più benestanti (+7,2%), che possono contare su consumi più contenuti di beni primari. Ciò avviene perché i beni di prima necessità (come alimentari ed energia) hanno registrato gli aumenti maggiori e pesano in misura maggiore sul carrello della spesa delle famiglie meno abbienti.
L’aumento generale dei prezzi erode anche il valore reale dei risparmi accumulati. Il denaro fermo su un conto corrente o investito in titoli a tasso fisso perde potere d’acquisto durante un episodio inflazionistico: ad esempio, un deposito di 10.000 euro che frutti pochi interessi reali vedrà diminuire la sua capacità di spesa futura se l’inflazione resta elevata. Chi dispone di ricchezza finanziaria deve quindi fronteggiare una sorta di “tassa occulta” sui propri risparmi durante i periodi di alta inflazione. Al contrario, i debitori a tasso fisso possono paradossalmente avvantaggiarsi: se si ha un mutuo a rata fissa, l’importo da pagare ogni mese rimane nominalmente lo stesso, ma col passare del tempo quell’importo rappresenta una quota sempre minore del reddito (che tende a crescere con l’inflazione) e il debito residuo si svaluta in termini reali. In sintesi l’inflazione redistribuisce risorse in modo spesso casuale: penalizza i creditori e chi detiene liquidità, mentre può favorire chi ha debiti a tasso fisso o beni il cui valore cresce con l’inflazione (come gli immobili).
In periodi di inflazione elevata e volatile, inoltre, le famiglie incontrano maggiori difficoltà nel pianificare le proprie spese. L’incertezza sull’andamento futuro dei prezzi rende complicato elaborare un budget familiare: acquisti importanti, come una casa o un’automobile, possono essere rimandati a causa di prezzi percepiti come troppo alti o per timore di ulteriori rincari. D’altro canto, per beni durevoli o investimenti, l’erosione monetaria può spingere ad anticipare gli acquisti (meglio comprare oggi prima che i prezzi salgano ancora). Vi possono anche essere effetti psicologici: un’inflazione elevata, specie se i salari non tengono il passo, può minare la fiducia dei consumatori e deprimere la domanda di beni non essenziali. Allo stesso tempo, in alcuni casi si osserva un aumento delle richieste di adeguamento salariale o di spesa pubblica assistenziale per compensare il carovita, con possibili effetti di secondo livello sull’economia.
Vi è infine un aspetto fiscale da considerare: in assenza di correzioni alle aliquote, l’inflazione può far aumentare il peso delle imposte sui redditi. Questo avviene perché i salari nominali tendono a crescere in periodi inflazionistici, ma le aliquote dell’imposta sul reddito (IRPEF) sono strutturate a scaglioni. Senza un adeguamento delle soglie, gli incrementi salariali nominali spingono i contribuenti in scaglioni fiscali più alti anche se il potere d’acquisto non è realmente aumentato. Questo fenomeno, noto come drenaggio fiscale o fiscal drag, è stato segnalato anche in Italia: nei periodi di alta inflazione, una quota maggiore di reddito finisce tassata, riducendo ulteriormente il reddito disponibile reale. Si tratta di un ulteriore canale attraverso cui l’inflazione può incidere sui bilanci familiari, a meno che il legislatore non intervenga correggendo le scale delle imposte.
Inflazione, salari e mercato del lavoro
Il rapporto tra inflazione e salari è delicato e cruciale. In un periodo di forte inflazione, i lavoratori vedono il potere d’acquisto delle proprie retribuzioni eroso dal caro-prezzi. Se i salari restano fermi mentre i prezzi salgono, si verifica una perdita di salario reale (come illustrato in precedenza): questo può ridurre i consumi delle famiglie e generare malcontento sociale. D’altro canto, se i lavoratori – tramite la contrattazione collettiva o pressioni sindacali – riescono a ottenere aumenti salariali per recuperare l’inflazione passata, le imprese si trovano ad affrontare costi del lavoro più elevati e spesso reagiscono aumentando a loro volta i prezzi di vendita per mantenere i margini. Si innesca così la cosiddetta spirale prezzi-salari, un circolo vizioso in cui rincari e ritocchi retributivi si alimentano a vicenda. Una volta avviata, questa spirale è difficile da arrestare e può condurre a un’inflazione cronicamente alta senza un intervento deciso di politica economica.
Un esempio storico di meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’inflazione è la scala mobile adottata in Italia nel secondo dopoguerra. Introdotta nel 1945, prevedeva che i salari dei lavoratori dipendenti venissero aumentati periodicamente in base all’andamento dell’indice dei prezzi, per salvaguardarne il potere d’acquisto. Questo sistema, però, negli anni ’70 e ’80 finì per alimentare ulteriormente l’inflazione: ogni aumento dei prezzi generava un incremento salariale, che a sua volta accresceva i costi per le imprese e spingeva verso nuovi rialzi dei prezzi. Non a caso la scala mobile venne prima attenuata negli anni Ottanta e poi abolita nei primi anni Novanta, proprio per spezzare la spirale inflattiva che contribuiva a sostenere.
L’inflazione può quindi essere vista come una “tassa” anche sul lavoro, in assenza di adeguamenti. Durante gli episodi inflattivi, spesso si assiste a un’intensificazione delle rivendicazioni sindacali e delle tensioni nel mercato del lavoro: i lavoratori chiedono aumenti per far fronte al carovita, mentre le imprese cercano di contenere i costi per non perdere competitività. Se l’inflazione sale oltre un certo limite, le banche centrali intervengono aumentando i tassi di interesse (come si vedrà più avanti) nel tentativo di raffreddare l’economia e ridurre la pressione sui prezzi. Tuttavia, queste manovre restrittive hanno come effetto collaterale un possibile aumento della disoccupazione, in quanto il rallentamento dell’attività economica può tradursi in meno assunzioni o addirittura in tagli al personale. La lotta all’inflazione diventa dunque anche una questione di equilibrio tra stabilità dei prezzi e salute del mercato del lavoro.
Impatti sulle imprese e sui settori produttivi
Per le imprese, l’inflazione rappresenta una sfida complessa. Un aumento generalizzato dei prezzi significa innanzitutto un incremento dei costi di produzione: materie prime, energia, trasporti e anche il costo del lavoro (se i salari vengono adeguati) tendono a salire in un contesto inflazionistico. Le aziende devono decidere se e quanto trasferire questi maggiori costi sui prezzi di vendita dei propri prodotti. Se il mercato accetta prezzi più alti, l’impresa riesce a mantenere i margini di profitto; ma se i clienti non sono disposti a pagare di più, l’azienda deve assorbire internamente i rincari, vedendo ridursi i profitti. In settori con forte concorrenza, la capacità di alzare i prezzi è limitata e alcune imprese potrebbero andare in difficoltà. Viceversa, le aziende che godono di potere di mercato o operano in settori oligopolistici riescono spesso a ritoccare i listini senza perdere clientela, proteggendo i propri utili.
Un’inflazione elevata e imprevedibile complica la pianificazione aziendale. I prezzi relativi perdono chiarezza informativa: diventa arduo distinguere se l’aumento del prezzo di un certo input o bene sia dovuto a dinamiche di mercato specifiche o semplicemente all’inflazione generale. Questo “rumore” nei segnali di prezzo può portare a decisioni subottimali nelle produzioni e negli investimenti. Inoltre, i contratti di fornitura di lungo periodo divengono più rischiosi: i fornitori potrebbero richiedere clausole di adeguamento dei prezzi all’inflazione per tutelarsi, trasferendo così parte del rischio inflattivo lungo la filiera. Anche i consumatori possono modificare i propri comportamenti (ad esempio anticipare acquisti importanti) mettendo alla prova la capacità di risposta delle imprese.
Gli effetti dell’inflazione non sono uniformi per tutti i settori produttivi. In periodi di forti rincari delle materie prime energetiche, ad esempio, le imprese attive nell’estrazione e distribuzione di energia possono registrare profitti straordinari grazie all’aumento dei prezzi di vendita, mentre i settori manifatturieri e industriali che utilizzano intensivamente energia soffrono maggiormente per l’incremento dei costi. Nel 2022, ad esempio, i dati indicano che nell’area euro l’aumento dei prezzi ha favorito un incremento dei margini di profitto soprattutto nel comparto energetico, mentre per molte imprese manifatturiere i rincari hanno eroso la redditività. Queste differenze possono riflettersi anche in Borsa: in fasi di alta inflazione i titoli di aziende dei settori delle materie prime o dei beni rifugio tendono a sovraperformare, mentre subiscono di più le imprese con costi fissi elevati o ricavi regolati.
Un altro impatto rilevante è sulle decisioni di investimento. Un’inflazione fuori controllo aumenta l’incertezza sul valore futuro dei flussi di cassa e rende più difficile valutare la convenienza di progetti a lungo termine. Inoltre, l’alta inflazione è di solito accompagnata da tassi di interesse più elevati (decisi dalle banche centrali per frenare i prezzi), il che significa un costo del capitale maggiore per finanziarsi. Ne consegue che molte imprese, in un contesto del genere, riducono o rinviano gli investimenti produttivi, preferendo strategie di breve periodo (ad esempio accumulare scorte di magazzino il cui valore cresce con i prezzi) piuttosto che impegnarsi in piani di espansione o innovazione. Nel complesso, quindi, un ambiente inflazionato tende a deprimere la crescita economica di medio-lungo termine, come evidenziato dal fatto che periodi prolungati di alta inflazione si associano storicamente a minore crescita del PIL e della produttività.
Conseguenze sui mercati finanziari
L’inflazione esercita un impatto profondo anche sui mercati finanziari. In primo luogo, erode il valore reale dei titoli a reddito fisso (come obbligazioni e titoli di Stato) che pagano cedole nominali predeterminate. Se un’obbligazione frutta un interesse del 2% annuo ma l’inflazione sale al 8%, il rendimento reale per l’investitore diventa negativo (-6% circa in termini di potere d’acquisto). Inoltre, quando l’inflazione aumenta, gli investitori si aspettano che i futuri titoli obbligazionari offrano tassi più alti per compensare la perdita di potere d’acquisto. Di conseguenza, i titoli a reddito fisso già in circolazione subiscono un calo di prezzo per adeguarne il rendimento effettivo ai nuovi livelli di mercato. Questo meccanismo ha portato, ad esempio, nel 2022 a forti ribassi nei prezzi delle obbligazioni globali, risultando in uno dei peggiori anni di sempre per i portafogli obbligazionari (dopo decenni in cui i bond erano considerati un investimento relativamente sicuro).
Anche i mercati azionari risentono di una fase di alta inflazione, sebbene l’effetto sia più eterogeneo rispetto al reddito fisso. Da un lato, un’inflazione elevata porta a tassi di interesse più alti e a una stretta monetaria, fattori che tendono a deprimere le valutazioni azionarie: i titoli tecnologici o di crescita, ad esempio, soffrono quando i tassi aumentano, poiché i loro utili futuri vengono attualizzati a un tasso di sconto maggiore. Dall’altro lato, alcuni settori azionari fungono da parziale protezione: aziende legate alle materie prime, all’energia o ad asset reali (immobiliare) possono vedere ricavi e utili crescere con l’inflazione e talvolta registrare buone performance relative. In generale, però, l’incertezza inflazionaria aumenta la volatilità dei mercati: gli investitori faticano a prevedere i risultati futuri delle imprese e l’orientamento delle politiche economiche, per cui richiedono premi per il rischio più alti per detenere azioni.
Nei periodi di inflazione fuori controllo, si osserva spesso una “fuga verso i beni reali” da parte dei risparmiatori: aumentano gli acquisti di beni rifugio come l’oro, le materie prime, gli immobili o altre attività il cui valore è percepito come più solido rispetto alla moneta. L’oro in particolare storicamente tende ad apprezzarsi nei periodi di alta inflazione, fungendo da riserva di valore alternativa. Anche i titoli indicizzati all’inflazione (come i BTP Italia o i Treasury Inflation-Protected Securities negli USA) diventano strumenti molto ricercati poiché garantiscono rendimenti agganciati all’andamento dell’indice dei prezzi. In sintesi, l’inflazione altera profondamente le scelte di portafoglio: riduce l’attrattiva della liquidità e delle obbligazioni a tasso fisso, spinge verso asset con protezione reale e costringe gli operatori a rivedere continuamente le proprie aspettative su tassi d’interesse, crescita e utili aziendali. Una stabilità dei prezzi è dunque fondamentale anche per la stabilità finanziaria: non a caso, negli ultimi decenni di bassa inflazione, i mercati finanziari hanno potuto contare su tassi d’interesse prevedibili e condizioni più favorevoli alla crescita degli investimenti.
Tassi di interesse e ruolo delle banche centrali
Poiché un’inflazione elevata e fuori controllo può danneggiare seriamente l’economia, nelle moderne economie di mercato il compito di mantenere la stabilità dei prezzi è affidato principalmente alle banche centrali. Queste istituzioni, come la Banca Centrale Europea (BCE) per l’Eurozona o la Federal Reserve negli Stati Uniti, attuano la politica monetaria regolando la quantità di moneta e il costo del denaro nell’economia. L’obiettivo dichiarato della BCE, ad esempio, è di mantenere l’inflazione su un livello vicino ma inferiore al 2% nel medio periodo, considerato un valore compatibile con una crescita equilibrata. Anche la Federal Reserve negli USA ha un obiettivo di inflazione intorno al 2% annuo.
Lo strumento principale di cui dispongono le banche centrali per influenzare l’inflazione è la manovra dei tassi di interesse di riferimento. In periodi di inflazione elevata, la banca centrale tende ad alzare i tassi: ciò rende il denaro più costoso da prendere in prestito, scoraggiando famiglie e imprese dall’indebitarsi per consumare o investire. Allo stesso tempo, tassi più alti rendono più remunerativo il risparmio nei depositi bancari o in titoli obbligazionari, invogliando gli attori economici a posticipare spese e investimenti. Il risultato complessivo è un raffreddamento della domanda aggregata nell’economia, che a sua volta aiuta a frenare la crescita dei prezzi. Questo approccio “restrittivo” è la classica ricetta anti-inflazionistica: storicamente, ondate inflative importanti (come quella degli anni ’70) sono state domate da decise stretture monetarie, pur al costo di recessioni nel breve termine.
Al contrario, quando l’inflazione è troppo bassa o si rischia la deflazione, le banche centrali adottano politiche espansive: riducono i tassi di interesse, rendendo più conveniente ottenere credito e meno vantaggioso tenere i soldi fermi in banca. Ciò stimola consumi e investimenti, facendo risalire la domanda e riportando gradualmente l’inflazione verso il livello desiderato. Negli ultimi due decenni, ad esempio, molte economie avanzate hanno sperimentato tassi estremamente bassi (anche prossimi allo zero) perché l’inflazione faticava a raggiungere il target prefissato del 2%. In quell’ambiente di bassa inflazione, le banche centrali hanno talvolta utilizzato strumenti non convenzionali – come l’acquisto massiccio di titoli sul mercato (il cosiddetto quantitative easing) – per immettere liquidità e spingere in su i prezzi.
L’indipendenza delle banche centrali dal potere politico è stata un caposaldo per garantire credibilità nella lotta all’inflazione. A partire dagli anni ’90 molti Paesi hanno adottato formalmente strategie di inflation targeting, assegnando alle proprie banche centrali l’obiettivo prioritario di mantenere l’inflazione entro un certo intervallo (spesso attorno al 2%). In cambio dell’autonomia nell’uso degli strumenti (come la gestione dei tassi a breve termine), le banche centrali sono chiamate a rendere conto dei risultati ottenuti in termini di stabilità dei prezzi. Questa cornice istituzionale ha contribuito a disancorare le aspettative di inflazione: famiglie e imprese, fiduciose che l’autorità monetaria interverrà in caso di surriscaldamento, mantengono aspettative di inflazione moderata, il che aiuta effettivamente a contenere le dinamiche dei prezzi.
Tuttavia, la politica monetaria non è onnipotente e agisce con ritardo sull’economia reale. Gli effetti di una variazione dei tassi di interesse richiedono in genere alcuni trimestri per manifestarsi pienamente su investimenti, consumi e prezzi. Inoltre, contro un’inflazione originata da shock esterni (come il rincaro del petrolio o una guerra) la banca centrale ha margini di intervento limitati: può cercare di evitare che la fiammata iniziale si propaghi, ma non può abbassare direttamente il prezzo del petrolio o dei cereali. Dunque le banche centrali devono calibrare con attenzione le loro mosse, bilanciando il rischio di fare troppo poco (permettendo all’inflazione di radicarsi) con quello di fare troppo (soffocando la crescita economica). La sfida, in definitiva, è mantenere la fiducia nella moneta e ancorare le aspettative dei cittadini su un’inflazione bassa e stabile.
Politiche fiscali e interventi governativi
Anche la politica di bilancio dello Stato – ovvero l’insieme di spesa pubblica e tassazione – influisce sull’andamento dei prezzi e può essere utilizzata per contrastare l’inflazione. In primo luogo, mantenere conti pubblici sostenibili e un deficit moderato aiuta a evitare di aggiungere pressione eccessiva sulla domanda aggregata. Se il governo spende molto più di quanto incassa in un’economia già vicina alla piena occupazione, l’effetto potrebbe essere quello di surriscaldare ulteriormente i consumi e gli investimenti privati, alimentando inflazione (un rischio evidenziato, ad esempio, nel massiccio stimolo fiscale americano durante la ripresa post-Covid). Al contrario, una politica fiscale restrittiva – aumento di tasse o taglio di spesa – può raffreddare la domanda e contribuire a ridurre l’inflazione, anche se raramente viene attuata esclusivamente per questo scopo dato il costo in termini di crescita e consenso politico.
I governi possono intervenire anche in modo diretto per mitigare gli effetti dell’inflazione su cittadini e imprese, sebbene queste misure abbiano spesso carattere temporaneo. Ad esempio, possono essere ridotte le imposte indirette su beni specifici (come l’IVA o le accise sui carburanti) per alleggerire i rincari al consumo, oppure possono essere concessi sussidi e bonus alle famiglie più colpite dal caro-vita. In Italia, nel corso del 2022, il governo è intervenuto più volte con decreti “anti-rincari” destinando complessivamente oltre 60 miliardi di euro a misure per contenere il caro energia: riduzioni delle accise sui carburanti, crediti d’imposta per le imprese energivore, bonus bollette per le famiglie a basso reddito, e un taglio temporaneo dell’IVA sul gas. Questi provvedimenti hanno attutito l’impatto immediato dell’inflazione percepita, pur gravando sul bilancio pubblico. Secondo l’ISTAT, grazie a tali interventi i prezzi energetici regolamentati (come le tariffe di luce e gas sotto tutela) in Italia sono aumentati meno di quanto sarebbe avvenuto in assenza di calmieri.
Un’altra strategia di politica economica è la politica dei redditi, ovvero il tentativo di coordinare le decisioni di salari e prezzi attraverso accordi tra le parti sociali. Ad esempio, il governo può facilitare intese tra sindacati e associazioni imprenditoriali per contenere sia le richieste di aumento salariale sia i rincari dei prezzi, allo scopo di interrompere sul nascere la spirale prezzi-salari. Negli anni ’80, l’Italia e altri Paesi attuarono politiche dei redditi (i cosiddetti “patti anti-inflazione”) con un certo successo nel frenare la dinamica inflattiva, almeno temporaneamente. Tuttavia, tali accordi richiedono un elevato grado di collaborazione e fiducia tra le parti e un contesto politico stabile.
In situazioni estreme, alcuni governi hanno persino imposto controlli diretti sui prezzi (price cap) o sul cambio della moneta per arginare l’inflazione. Ad esempio, negli anni ’70 gli Stati Uniti introdussero un blocco temporaneo dei prezzi e dei salari nel tentativo di spezzare le aspettative inflazionistiche, ma con risultati limitati una volta rimossi i controlli. Misure di controllo dei prezzi possono offrire un sollievo immediato su alcuni beni critici (si pensi ai tetti al prezzo dell’energia elettrica o del gas introdotti in vari Paesi europei nel 2022), ma non risolvono le cause sottostanti dell’inflazione e possono generare distorsioni o carenze di offerta se mantenute a lungo. Pertanto, la strategia più efficace sul medio termine resta agire sulle cause strutturali: ricostituire scorte di materie prime, migliorare l’efficienza produttiva, diversificare le fonti energetiche e mantenere la disciplina di bilancio, in coordinamento con la politica monetaria.
L’ondata inflazionistica recente: dal mondo all’Italia
Dopo un lungo periodo di inflazione contenuta (per gran parte degli anni 2010 i prezzi crescevano a malapena dell’1-2% annuo nelle economie avanzate, quando non meno), a partire dal 2021 si è assistito a un brusco ritorno dell’inflazione su scala globale. La pandemia di Covid-19 aveva inizialmente provocato una caduta dei consumi e dei prezzi nel 2020, ma la successiva ripresa economica, sostenuta da politiche monetarie e fiscali molto espansive, ha trovato le catene di approvvigionamento mondiale in difficoltà: carenza di semiconduttori, colli di bottiglia nei trasporti e scarsità di alcune materie prime hanno fatto impennare i prezzi di molti beni già nel 2021. A questo si è aggiunto, a inizio 2022, lo shock della guerra in Ucraina: il conflitto e le sanzioni alla Russia hanno ridotto la disponibilità di gas naturale, petrolio e cereali sui mercati europei e mondiali, facendo schizzare in alto i costi dell’energia e dei generi alimentari. La combinazione di questi fattori – ripresa post-pandemica e shock energetico – ha prodotto nel 2022 tassi d’inflazione che non si vedevano da decenni in molte aree del mondo.
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