La pensione in Italia: storia, attualità e sfide future di un pilastro sociale

La pensione rappresenta uno dei pilastri fondamentali del welfare italiano, un meccanismo che garantisce un reddito ai cittadini dopo una vita di lavoro. Non si tratta solo di un assegno mensile, ma di un patto sociale tra generazioni: i lavoratori attivi finanziano le prestazioni di chi ha terminato l’attività lavorativa, con l’aspettativa di ricevere a loro volta una tutela analoga in futuro​. Il principio è sancito anche dalla Costituzione italiana, che all’articolo 38 garantisce il diritto dei lavoratori a mezzi adeguati in caso di vecchiaia e altre condizioni di bisogno​. In una società che sta invecchiando rapidamente, il tema previdenziale assume un ruolo centrale nel dibattito pubblico: oggi in Italia i pensionati sono oltre 16 milioni (oltre 300 miliardi di euro di spesa annua nel 2019)​, con un’età media in costante aumento​. Questo articolo offre uno sguardo approfondito sulla storia del sistema pensionistico italiano, sul suo funzionamento attuale e sulle sfide che lo attendono nei prossimi anni.

Storia del sistema pensionistico italiano

Le origini e lo sviluppo fino al secondo dopoguerra

Il sistema pensionistico italiano affonda le sue radici alla fine del XIX secolo, sull’onda delle prime esperienze di welfare europeo. Nel 1898 fu istituita la Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai, una forma di assicurazione volontaria pensata per incoraggiare i lavoratori a versare contributi per garantirsi una rendita in età avanzata, con un contributo integrativo da parte dello Stato​. Si trattava di un primo passo importante, ma la copertura era limitata e basata sull’adesione individuale. Un cambiamento decisivo arrivò nel 1919, quando l’assicurazione per invalidità e vecchiaia divenne obbligatoria per i lavoratori dipendenti dell’industria e dell’agricoltura, segnando la nascita dell’Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO) gestita dalla Cassa nazionale delle assicurazioni sociali​. Era il primo vero pilastro pubblico a tutela dei lavoratori anziani, ispirato ai modelli di previdenza sociale introdotti pochi decenni prima in Germania dal cancelliere Bismarck.

Negli anni Trenta, sotto il regime fascista, la struttura previdenziale si consolidò ulteriormente. Nel 1933 la Cassa nazionale divenne l’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale, poi dal 1943 semplicemente Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), destinato a diventare l’ente cardine della previdenza italiana​. In quel periodo vennero introdotte altre tutele complementari: nel 1939 comparvero l’assicurazione contro la disoccupazione, la pensione di reversibilità a favore dei superstiti (coniuge e figli di un lavoratore deceduto) e forme di assegni familiari e assistenza malattia tramite casse mutue settoriali​. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, quindi, il sistema pensionistico italiano aveva già compiuto passi importanti, pur restando limitato a determinate categorie e basato in parte su accantonamenti finanziari.

Dal dopoguerra agli anni d’oro: espansione e generosità

Nel secondo dopoguerra, con la nascita della Repubblica, la previdenza sociale divenne uno strumento essenziale di coesione e protezione in una società da ricostruire. Gli anni ’50 e ’60 videro un progressivo ampliamento della platea di lavoratori coperti e un miglioramento delle prestazioni. Una svolta di grande rilievo fu la legge 4 aprile 1952, n. 218, che sancì il passaggio dal sistema a capitalizzazione – in cui ciascuno accumula un proprio fondo per la vecchiaia – al sistema a ripartizione, nel quale i contributi versati dalla popolazione attiva finanziano le pensioni correnti​. In pratica, si instaurò quel meccanismo di solidarietà intergenerazionale tuttora in vigore, dove l’assegno erogato non dipende da un patrimonio individuale accantonato ma dal flusso dei contributi di chi lavora. Contestualmente, negli anni ’50 e ’60, l’economia in forte crescita e il miglioramento delle condizioni sociali permisero di introdurre tutele più ampie: vennero estesi gradualmente i regimi pensionistici ad altre categorie di lavoratori, mentre l’importo delle pensioni iniziò a essere periodicamente adeguato al costo della vita per preservarne il potere d’acquisto.

Una pietra miliare arrivò nel 1969 con la cosiddetta riforma Brodolini (legge 30 aprile 1969, n. 153). Essa introdusse il metodo di calcolo retributivo della pensione, concependo l’assegno previdenziale come una quota sostitutiva dello stipendio percepito negli ultimi anni di lavoro​. In altre parole, l’assegno previdenziale venne agganciato alle retribuzioni finali del lavoratore, garantendo spesso importi prossimi all’ultima paga soprattutto per le carriere lunghe e continue. Nella stessa riforma furono istituite la pensione sociale (per i cittadini ultrasessantacinquenni privi di reddito e non coperti da contributi, finanziata dalla fiscalità generale) e il trattamento di anzianità, che consentiva la quiescenza anticipata al raggiungimento di 35 anni di contributi indipendentemente dall’età anagrafica​. Fu inoltre introdotta la perequazione automatica delle pensioni, ovvero l’adeguamento periodico degli importi all’inflazione: dal 1975 e fino alla riforma Amato del 1992, tale adeguamento fu agganciato, oltre che ai prezzi, anche all’andamento dei salari medi, assicurando che il tenore di vita dei pensionati seguisse quello dei lavoratori attivi​. Queste misure resero il sistema italiano tra i più generosi al mondo, ma posero anche le basi per squilibri finanziari crescenti.

Negli anni ’70 e ’80, infatti, la spesa pensionistica esplose. L’abbassamento effettivo dell’età media di pensionamento, grazie a norme come le cosiddette “baby pensioni” introdotte nel 1973 per i dipendenti pubblici (che permettevano il ritiro dal lavoro dopo periodi di servizio molto brevi per alcune categorie), fece aumentare rapidamente il numero di pensionati​. Allo stesso tempo, la formula retributiva garantiva importi elevati non sempre proporzionati ai contributi versati durante la carriera lavorativa, soprattutto per chi aveva avuto significativi aumenti salariali negli ultimi anni di servizio​​. Il risultato fu un aggravio notevole sui conti pubblici: già a partire dagli anni ’70 iniziarono a manifestarsi squilibri tra contributi incassati e prestazioni erogate​, squilibri destinati a peggiorare con l’allungamento della speranza di vita e il calo delle nascite, fenomeni che alterarono il rapporto tra popolazione attiva e popolazione in pensione​.

Le riforme dagli anni ’90 ad oggi

Con l’avanzare della crisi demografica ed economica, divenne chiara la necessità di una riforma strutturale del sistema pensionistico per garantirne la sostenibilità finanziaria. La prima importante correzione arrivò nei primi anni ’90, in un contesto di finanza pubblica difficoltosa. Nel 1992 il governo Amato intervenne con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503: fu innalzata gradualmente l’età pensionabile (da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 per le donne) e aumentata da 15 a 20 anni la contribuzione minima richiesta per la pensione di anzianità​. Al contempo, l’indicizzazione delle pensioni fu agganciata esclusivamente all’inflazione (abbandonando il riferimento ai salari)​, riducendo così l’incremento annuale degli assegni. Questi provvedimenti segnarono l’inizio di un percorso di razionalizzazione.

Parallelamente, si cominciò a promuovere la previdenza complementare: nel 1993, col d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124, venne introdotta la prima disciplina organica della previdenza complementare configurando un sistema volto ad affiancare alla previdenza pubblica di primo pilastro forme di assicurazione a capitalizzazione di tipo privatistico​. Ma la riforma più radicale arrivò nel 1995 con la cosiddetta riforma Dini (legge 8 agosto 1995, n. 335). Essa trasformò l’architettura del sistema introducendo il metodo di calcolo contributivo pro rata per tutti i lavoratori: in pratica, l’importo futuro venne legato direttamente ai contributi effettivamente versati dal lavoratore durante tutta la vita lavorativa, superando gradualmente il metodo retributivo legato all’ultima retribuzione​. La riforma Dini previde un lungo periodo transitorio: per i neo-assunti dal 1996 in poi il sistema contributivo sarebbe valso per l’intera carriera, mentre per chi aveva già versato contributi prima del 1996 si applicavano regole miste (parte retributivo per gli anni fino al 1995, contributivo per quelli successivi), salvaguardando però coloro che avevano almeno 18 anni di contributi a fine 1995, i quali avrebbero mantenuto il calcolo interamente retributivo per la loro pensione​. Inoltre, la riforma introdusse anche il concetto di flessibilità in uscita: a regime, sarebbe stato possibile ritirarsi dal lavoro in un’età compresa tra i 57 e i 65 anni (poi estesa fino a 67-70 in base agli aggiornamenti successivi), con importi più bassi per chi si ritirava prima e più alti per chi lavorava più a lungo.

Negli anni successivi vi furono ulteriori aggiustamenti. Nel 2004 la “riforma Maroni” (legge delega 23 agosto 2004, n. 243) tentò di innalzare bruscamente l’età per la pensione di anzianità a 60 anni a partire dal 2008 (il cosiddetto scalone), mantenendo comunque la necessità di 35 anni di contributi. Questo provvedimento però venne attenuato dalla successiva “riforma Prodi” del 2007 (legge 24 dicembre 2007, n. 247), che abolì lo scalone introducendo invece un graduale sistema delle quote: dal 2008 in poi il requisito per il trattamento anticipato sarebbe stato dato dalla somma di età anagrafica e anni di contributi, con quote minime via via crescenti (ad esempio quota 95 nel 2008, quota 96 nel 2010, ecc.), così da raggiungere comunque un innalzamento dell’età effettiva di pensionamento ma in modo più progressivo​.

Il vero punto di svolta recente è arrivato però nel 2011, in piena crisi del debito sovrano. Il governo Monti, con il ministro Elsa Fornero, varò una riforma di portata eccezionale (decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214) per mettere in sicurezza la finanza pubblica e allineare l’Italia agli standard europei​. La riforma Fornero ha accelerato e completato la transizione al sistema contributivo, eliminando del tutto il residuo metodo retributivo a partire dal 1º gennaio 2012: anche per i lavoratori con lunga anzianità, la quota maturata dopo il 2011 viene calcolata con il metodo contributivo​. In pratica, nessuno avrebbe più potuto ritirarsi dal lavoro contando esclusivamente sulle ultime retribuzioni: per tutti si applica il principio secondo cui “più contributi versi, più alta sarà la tua pensione”. La riforma ha inoltre abolito il trattamento di anzianità, sostituendolo con il trattamento anticipato, basato solo sul numero degli anni di contributi accumulati (a prescindere dall’età anagrafica)​, e ha innalzato ulteriormente i requisiti anagrafici per il trattamento di vecchiaia, prevedendo l’equiparazione dell’età di pensionamento tra uomini e donne a decorrere dal 2018. Inoltre, è stato introdotto un meccanismo automatico di adeguamento di tutti i requisiti all’aspettativa di vita: sia l’età per il pensionamento sia la contribuzione necessaria per il trattamento anticipato vengono progressivamente adeguate agli indici ISTAT sulla crescita della speranza di vita, con revisione ogni pochi anni​. Dal 2019, ad esempio, l’età di vecchiaia è stata portata a 67 anni per effetto di tali adeguamenti. La riforma Fornero, pur dolorosa per molti lavoratori, ha perseguito finalità di equità e sostenibilità: ha uniformato le regole per tutte le categorie e cercato di contenere la spesa in un Paese con popolazione sempre più anziana.

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Come funziona oggi la pensione in Italia

La struttura attuale del sistema previdenziale italiano è il risultato di queste evoluzioni storiche e delle riforme succedutesi negli ultimi decenni. Oggi la previdenza pubblica obbligatoria è gestita principalmente dall’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale), che copre la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti e autonomi. Il finanziamento avviene con il metodo a ripartizione: i contributi previdenziali versati da lavoratori e aziende vengono immediatamente utilizzati per pagare le pensioni in essere. Le aliquote contributive sono molto elevate in confronto internazionale – circa il 33% della retribuzione lorda nel caso dei lavoratori dipendenti, sommando la quota a carico del datore di lavoro e quella a carico del lavoratore​– proprio per sostenere un livello di prestazioni storicamente generoso. In Italia la spesa previdenziale pubblica assorbe infatti circa il 16% del PIL​, uno dei valori più alti d’Europa.

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Dal lato delle prestazioni, il meccanismo di calcolo è ormai integralmente contributivo per tutti i nuovi pensionati: ogni lavoratore accumula nel corso della carriera un montante virtuale di contributi (registrato sul proprio “conto” presso l’INPS), che viene rivalutato annualmente in base alla crescita dell’economia. Al momento del pensionamento, questo montante viene trasformato in una rendita annua mediante coefficienti attuariali che tengono conto dell’età: più tardi ci si ritira, maggiore è il coefficiente e dunque l’assegno annuo ottenuto a parità di montante​. In questo modo il sistema premia – o per meglio dire incentiva – la permanenza più lunga possibile al lavoro. Chi lascia il lavoro molto presto rispetto all’aspettativa di vita riceverà un importo annuo più basso (anche perché verserà contributi per meno anni), mentre chi lavora più a lungo riceverà un assegno annuo più alto ma verosimilmente per meno anni. Questo regime contributivo – diverso dal precedente retributivo che garantiva una percentuale fissa dell’ultimo stipendio – è considerato più sostenibile sul piano finanziario e più equo tra generazioni, perché lega direttamente ciò che si riceve a quanto si è versato.

L’ente previdenziale INPS eroga diverse tipologie di pensioni: le principali sono la pensione di vecchiaia (che si ottiene al raggiungimento di una determinata età anagrafica, unitamente a una anzianità minima di contributi) e la pensione anticipata (accessibile prima dell’età di vecchiaia avendo maturato un elevato numero di anni di contributi). Esistono poi la pensione di invalidità (per chi non può più lavorare a causa di gravi problemi di salute) e la pensione ai superstiti (reversibilità, per i familiari di un lavoratore o pensionato deceduto), oltre a prestazioni assistenziali come l’assegno sociale che sostiene gli anziani privi di reddito e di contributi sufficienti. Per quanto riguarda i requisiti, attualmente (anno 2025) il trattamento di vecchiaia in Italia si consegue a 67 anni di età con almeno 20 anni di contribuzione (requisito anagrafico unificato per uomini e donne, destinato a salire col tempo in base all’aspettativa di vita). La pensione anticipata, invece, richiede 42 anni e 10 mesi di contributi (41 anni e 10 mesi per le donne) indipendentemente dall’età anagrafica. Ciò significa, ad esempio, che un lavoratore uomo che abbia iniziato a lavorare a 24 anni potrà maturare il diritto al trattamento anticipato attorno ai 66 anni, non molto prima quindi dell’età di vecchiaia, mentre chi ha cominciato a 18 anni potrebbe raggiungere i requisiti già intorno ai 61 anni. Va ricordato che non sono previste penalizzazioni sull’importo per chi accede alla pensione anticipata (eventuali decurtazioni introdotte inizialmente dalla riforma Fornero sono state successivamente eliminate), ma naturalmente chi smette prima di lavorare accumula meno contributi e percepirà quindi un assegno inferiore rispetto a chi lavora più a lungo.

In termini di platee, la maggior parte dei nuovi pensionati oggi accede ancora tramite la vecchiaia, ma una quota significativa – specialmente tra i lavoratori dipendenti con carriere continuative – sfrutta la pensione anticipata non appena ne ha la possibilità. L’età media effettiva di uscita dal lavoro risultante è progressivamente aumentata: nel 2019 era di circa 64 anni, contro i 60 anni registrati all’inizio degli anni 2000​. Questo aumento è l’effetto combinato dell’innalzamento dei requisiti anagrafici e contributivi e delle misure che hanno reso più difficile l’uscita anticipata. Le differenze di importo medio già citate riflettono anche l’eterogeneità dei percorsi: chi va in pensione di vecchiaia spesso ha avuto carriere più brevi o frammentate, mentre chi riesce ad andare in pensione anticipata tende ad aver iniziato a lavorare molto giovane e senza interruzioni, godendo quindi di assegni mediamente più elevati.

Il sistema pubblico assicura a tutti una base di reddito in età avanzata con criteri uniformi e solidaristici, mentre il secondo pilastro privato – su adesione individuale o collettiva – consente di costruirsi un trattamento aggiuntivo su misura, in base alle proprie possibilità di risparmio e alle scelte d’investimento. L’equilibrio tra questi due pilastri è diventato un tema cruciale negli ultimi decenni.

Differenze tra pensione pubblica e privata

Quando si parla di previdenza pubblica ci si riferisce al sistema obbligatorio gestito dallo Stato (principalmente attraverso l’INPS), mentre la previdenza privata indica in genere forme di previdenza complementare volontarie gestite da enti pensionistici privati (fondi pensione, polizze assicurative, casse professionali, ecc.). La distinzione fondamentale sta nel modello di finanziamento e nella natura giuridica: la previdenza pubblica è un diritto sancito per legge, finanziato col sistema a ripartizione (gli attivi pagano per i pensionati), mentre la previdenza complementare funziona per lo più a capitalizzazione, cioè tramite l’accumulazione individuale di contributi e rendimenti nel tempo​. Nel primo caso c’è un trasferimento immediato di risorse tra generazioni – un patto intergenerazionale garantito dallo Stato – nel secondo caso ciascun lavoratore costituisce nel corso degli anni un proprio capitale che verrà poi restituito sotto forma di rendita vitalizia al momento del pensionamento.

Queste differenze implicano una diversa natura del “rischio pensionistico”. La previdenza pubblica dipende dall’andamento demografico ed economico generale: se diminuiscono i lavoratori rispetto ai pensionati o l’economia ristagna, lo Stato può dover modificare requisiti e importi (come avvenuto con le varie riforme) o integrare la spesa con risorse fiscali. La previdenza complementare, invece, è esposta ai rischi finanziari: i contributi versati vengono investiti sui mercati e il risultato finale dipenderà dai rendimenti ottenuti. In genere i fondi pensione diversificano gli investimenti e sono soggetti a vigilanza (in Italia da parte della COVIP, l’autorità di controllo sui fondi pensione) per tutelare gli aderenti, ma non c’è la garanzia pubblica diretta che invece sostiene il primo pilastro. D’altro canto, la previdenza complementare offre l’opportunità di ottenere rendimenti più elevati nel lungo periodo e di costituire un tesoretto integrativo. In un sistema come quello italiano in cui la previdenza pubblica tende a coprire una quota decrescente dell’ultimo stipendio (il tasso di sostituzione futuro previsto è attorno al 50-60% per i giovani lavoratori​), la previdenza complementare è pensata proprio per colmare questo divario e mantenere un tenore di vita adeguato anche dopo l’uscita dal mondo del lavoro.

Il sistema pubblico assicura a tutti una base di reddito in vecchiaia con criteri uniformi e solidali, mentre il sistema privato consente di costruirsi una copertura aggiuntiva in base alle proprie esigenze e possibilità. L’equilibrio tra questi due pilastri resta un tema delicato e cruciale per il futuro: negli anni a venire, infatti, sarà importante rafforzare il secondo pilastro senza indebolire il primo, così da mantenere sia la sostenibilità finanziaria sia l’adeguatezza delle prestazioni.

Previdenza complementare e fondi pensione

La previdenza complementare in Italia ha iniziato a svilupparsi compiutamente dagli anni ’90, ma ha preso piede soprattutto dopo una riforma varata nel 2005 (decreto legislativo 252/2005) che ha incentivato l’adesione ai fondi pensione. Da allora, i lavoratori hanno la facoltà di destinare il proprio TFR (Trattamento di Fine Rapporto, la liquidazione maturata annualmente) a un fondo previdenziale: in mancanza di una scelta esplicita contraria, il TFR dei nuovi assunti viene conferito automaticamente al fondo di categoria (meccanismo del silenzio-assenso). Questo sistema ha fatto crescere sensibilmente le adesioni a partire dal 2007. Oggi esistono diverse tipologie di fondi pensione: i fondi negoziali (di categoria o aziendali, istituiti tramite contratti collettivi per specifici settori), i fondi aperti (istituiti da banche, assicurazioni o società finanziarie, aperti a chiunque voglia aderirvi) e i piani individuali pensionistici – PIP (polizze assicurative individuali con finalità previdenziali). Tutti operano a capitalizzazione: i contributi versati (dal lavoratore, dal datore di lavoro se previsto e/o il TFR) vengono investiti sui mercati finanziari secondo profili di rischio scelti dall’aderente, e al momento del pensionamento il capitale accumulato viene in parte erogato come rendita integrativa mensile e in parte può essere riscosso come capitale (entro limiti fissati dalla legge).

Per favorire lo sviluppo delle forme previdenziali complementari, lo Stato prevede incentivi fiscali: i contributi versati ai piani pensionistici integrativi sono deducibili dal reddito imponibile fino a un certo tetto annuo, e le prestazioni finali godono di una tassazione agevolata rispetto al normale trattamento fiscale degli investimenti. Inoltre, molti contratti collettivi nazionali prevedono un contributo aggiuntivo del datore di lavoro per chi aderisce al fondo negoziale, rendendo la scelta ancora più conveniente. Sul fronte dei rendimenti, i fondi pensione hanno registrato negli ultimi anni andamenti variabili in base alle condizioni dei mercati finanziari: ad esempio, il 2022 è stato un anno difficile con rendimenti medi negativi a causa del calo sia delle obbligazioni sia delle azioni, mentre nel 2023 si è avuto un parziale recupero. Nonostante la volatilità di breve periodo, nel medio-lungo periodo i fondi hanno generalmente offerto risultati cumulati competitivi, spesso superiori alla rivalutazione del TFR lasciato in azienda. Ciò indica che, per un lavoratore giovane, aderire a una forma pensionistica complementare può significare ritrovarsi, al momento del pensionamento, con un assegno integrativo sensibilmente più alto rispetto a chi si affida esclusivamente alla previdenza pubblica.

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La previdenza complementare e i fondi pensione costituiscono dunque il “secondo pilastro” del sistema previdenziale italiano: volontario, individuale (o collettivo) e finanziato a capitalizzazione. Il loro ruolo è quello di integrare la previdenza pubblica, assicurando una maggiore copertura finanziaria nella terza età. Negli ultimi anni la consapevolezza sull’importanza di questo pilastro sta crescendo, ma resta fondamentale aumentare l’educazione finanziaria e la fiducia dei lavoratori – in particolare dei più giovani – affinché colgano l’opportunità di costruirsi per tempo una riserva previdenziale.

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Investimenti e risparmio per la pensione

Pianificare per tempo il proprio futuro finanziario è diventato sempre più importante in vista di prestazioni pubbliche meno generose (in proporzione all’ultimo stipendio) rispetto al passato. Oltre alle forme di previdenza complementare istituzionali, esistono varie strategie di risparmio e investimento che le persone possono adottare individualmente per assicurarsi un tenore di vita adeguato in terza età. La cultura del risparmio è da sempre radicata in Italia: le famiglie italiane vantano in media un elevato patrimonio, spesso investito in immobili (la casa di proprietà è stata tradizionalmente considerata una garanzia per la vecchiaia, garantendo almeno l’abbattimento dei costi abitativi in età avanzata) e in forma di risparmi bancari o titoli di Stato. Tuttavia, le nuove generazioni incontrano maggiori difficoltà a risparmiare a causa di redditi iniziali più bassi e carriere lavorative meno stabili.

Una buona pianificazione previdenziale personale dovrebbe idealmente iniziare già durante la vita lavorativa attiva. Gli esperti consigliano di destinare una parte del reddito, anche piccola ma costante, a investimenti di lungo termine dedicati alla pensione. Questi investimenti possono assumere diverse forme: dai contributi versati a un fondo previdenziale (che restano vincolati fino al pensionamento, salvo casi particolari di anticipo), all’acquisto di strumenti finanziari a medio-lungo termine come titoli di Stato, obbligazioni, azioni o fondi comuni. È importante diversificare il portafoglio, bilanciando sicurezza e rendimento: ad esempio, i Buoni del Tesoro Poliennali (BTP) e altri titoli di Stato offrono rendimenti moderati con un rischio contenuto e possono costituire una base sicura di reddito integrativo, mentre investimenti azionari o immobiliari, pur più rischiosi, nel lungo periodo possono proteggere dall’inflazione e offrire guadagni maggiori.

Il potere dell’interesse composto fa sì che iniziare a risparmiare da giovani – anche con cifre modeste – porti a risultati sorprendenti dopo qualche decennio: gli interessi (o i rendimenti) maturati annualmente si reinvestono a loro volta, generando ulteriore crescita. Ad esempio, mettendo da parte 100 euro al mese e investendoli a un rendimento medio annuo del 3-4%, dopo 35-40 anni si può accumulare un capitale di decine di migliaia di euro. Questo capitale potrà poi essere utilizzato per integrare la pensione pubblica, prelevandone una parte ogni anno (come se fosse una rendita auto-costruita) oppure convertendolo in una rendita vitalizia presso un’assicurazione. In sostanza, il risparmio privato rappresenta il “terzo pilastro” della sicurezza economica in vecchiaia, dopo la previdenza pubblica e quella complementare: è una libera scelta individuale, ma sempre più necessaria per chi desidera mantenere il proprio stile di vita dopo l’uscita dal lavoro.

Naturalmente, non tutti hanno la capacità finanziaria di accantonare somme significative durante la vita lavorativa, specialmente in presenza di spese familiari, mutui o periodi di disoccupazione. Per questo risulta importante, da un lato, pianificare con realismo – approfittando dei periodi di maggiore stabilità economica per risparmiare qualcosa – e, dall’altro, sfruttare eventuali strumenti offerti dal sistema finanziario e previdenziale. Ad esempio, il lavoratore autonomo che non ha un datore di lavoro che versi contributi può comunque dedurre fiscalmente quanto investe in un piano pensionistico individuale; oppure, chi dispone di un patrimonio immobiliare può valutare, in età anziana, strumenti come la vendita della nuda proprietà o il prestito vitalizio ipotecario, che consentono di trasformare la casa in liquidità mantenendo l’uso dell’abitazione. Sono opzioni da ponderare attentamente, ma evidenziano come il tema previdenziale coinvolga un più ampio spettro di decisioni patrimoniali.

La costruzione di un trattamento adeguato passa sempre più attraverso una combinazione di fonti: la previdenza pubblica, i fondi pensione integrativi e il risparmio privato gestito in modo oculato. L’educazione finanziaria riveste un ruolo cruciale: comprendere per tempo come funziona il sistema previdenziale e quali strumenti si hanno a disposizione consente di evitare di trovarsi impreparati una volta raggiunta l’età anziana. Anche piccoli accorgimenti – come evitare di interrompere i versamenti contributivi, mantenere una quota di risparmio costante quando possibile e informarsi sui prodotti previdenziali – possono fare la differenza, garantendo maggiore tranquillità e indipendenza economica negli anni della pensione.

Impatto dell’invecchiamento della popolazione

Il progressivo invecchiamento della popolazione italiana è forse la sfida più impegnativa per il sistema previdenziale. L’Italia è ormai uno dei Paesi più anziani al mondo: l’età mediana ha raggiunto 48,4 anni (la più alta nell’Unione Europea)​, il tasso di fecondità è crollato a circa 1,24 figli per donna (ben al di sotto del livello di sostituzione generazionale di 2,1)​, e la speranza di vita continua ad aumentare (un sessantacinquenne oggi ha in media oltre 21 anni di vita residua)​. Questo significa che la fascia degli anziani over 65 cresce in proporzione rispetto alla popolazione attiva giovane. Già nel 2022 il rapporto tra popolazione con più di 64 anni e popolazione in età 20-64 anni in Italia era circa il 41%, il più alto in Europa​. Guardando al futuro, l’ISTAT prevede che gli over-65 – oggi circa un quarto della popolazione – arriveranno a costituire più del 34% degli italiani nel 2050​. In numeri assoluti, si passerà dai 59 milioni di residenti del 2022 a 54,4 milioni nel 2050​, con una composizione per età fortemente sbilanciata verso l’alto. Il rapporto tra popolazione in età lavorativa e popolazione non lavorativa (anziani e bambini) passerà dall’attuale circa 3:2 a circa 1:1 nel 2050​. In altre parole, attorno a metà secolo avremo un solo lavoratore per ogni persona non attiva.

Le implicazioni per il sistema previdenziale sono profonde. Un minor numero di lavoratori significa meno contributi versati, mentre un maggior numero di anziani significa più pensioni da pagare e per un periodo più lungo di tempo. Se la produttività economica e i salari non crescono a un ritmo sostenuto, ne risulta uno squilibrio finanziario. Già oggi l’Italia destina alle pensioni una quota molto elevata di risorse: nel 2021 la spesa previdenziale al lordo delle tasse era pari al 16,3% del PIL (seconda solo alla Grecia in Europa, contro una media UE del 12,9%)​. L’OCSE stima che, senza correttivi, la spesa per pensioni potrebbe raggiungere un picco del 17-18% del PIL intorno al 2035​, per poi stabilizzarsi su livelli comunque alti. Allo stesso tempo, il numero relativamente esiguo di giovani rischia di tradursi in una carenza di forza lavoro, con effetti negativi sulla crescita economica e quindi sulla capacità del Paese di sostenere il suo sistema previdenziale.

L’invecchiamento pone anche un problema di equità tra generazioni. Le generazioni del secondo dopoguerra hanno beneficiato di pensioni pubbliche generose a fronte di un numero elevato di contribuenti; le generazioni più giovani si trovano a pagare contributi molto alti – l’aliquota contributiva effettiva in Italia raggiunge il 33% del salario​– per finanziare le prestazioni in essere, pur sapendo che probabilmente riceveranno, a parità di condizioni, assegni meno ricchi quando sarà il loro turno. Questo può minare il patto sociale alla base del sistema: se i giovani percepiscono di versare molto e di non poter contare su un assegno dignitoso in futuro, la fiducia nel sistema crolla. Il rischio concreto è una sorta di “conflitto” generazionale silenzioso, con i più giovani tentati di emigrare verso Paesi con migliori prospettive o di evadere i contributi, e i più anziani che – forti del loro peso elettorale – resistono a qualsiasi riduzione dei propri benefici.

Affrontare l’impatto dell’invecchiamento demografico richiede interventi complessi su più fronti. In primo luogo, allargare la base occupazionale: aumentare il numero di lavoratori attivi contribuirebbe a riequilibrare il rapporto con i pensionati. Ciò significa promuovere l’occupazione giovanile (ancora troppo bassa) e quella femminile (l’Italia ha uno dei più bassi tassi di partecipazione femminile al lavoro in Europa), attraverso politiche di crescita economica, formazione e conciliazione lavoro-famiglia. Più contribuenti oggi equivalgono a più risorse per pagare le pensioni e, domani, a meno persone che chiederanno l’assegno sociale minimo. In secondo luogo, sostenere la natalità e favorire l’ingresso di immigrati: invertire il declino demografico è fondamentale per avere in futuro una popolazione in età lavorativa più ampia. Ovviamente sono misure i cui effetti si vedono nel lungo periodo (i bambini che nascono oggi entreranno nel mondo del lavoro tra 20-25 anni), ma senza un ricambio generazionale il sistema è destinato a contrarsi. Politiche per la famiglia, incentivi alla genitorialità, servizi per l’infanzia e un’efficace integrazione degli immigrati possono contribuire a mitigare l’invecchiamento.

Un altro ambito chiave è quello di prolungare la vita lavorativa in buona salute. Significa non solo innalzare per legge l’età pensionabile (misura già adottata in Italia e in molti Paesi avanzati), ma anche creare le condizioni affinché le persone sopra i 60-65 anni possano e vogliano continuare a lavorare, se lo desiderano e sono in grado. Ciò implica una migliore salute generale (politiche sanitarie e di prevenzione), la possibilità di forme di lavoro flessibile o part-time in età matura, la formazione continua per aggiornare le competenze. L’obiettivo è duplice: ridurre il numero di anni in cui una persona rimane inattiva percependo un reddito da pensione e allo stesso tempo aumentare il numero di anni in cui contribuisce. Alcuni Paesi stanno già pensando a scenari di età pensionabile verso i 70 anni e oltre; in Italia, come accennato, per i giovani di oggi si prospetta un’uscita dal lavoro attorno ai 71 anni​, a meno di cambiamenti nelle tendenze demografiche. È una prospettiva che richiede un adattamento anche culturale: l’idea di lavorare più a lungo deve essere accompagnata da mansioni adatte alle esigenze degli anziani (compiti meno gravosi, orari ridotti, telelavoro) e da un cambiamento nella percezione sociale dell’anzianità, vista non più come sinonimo di inattività ma come fase ancora produttiva e ricca di esperienza da valorizzare.

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Sul fronte del contenimento della spesa, occorre evitare per quanto possibile l’introduzione di nuove forme di pensionamento anticipato che non siano finanziariamente coperte (le cosiddette quote e “scivoli” vari, che alleggeriscono momentaneamente il mercato del lavoro ma caricano costi sulle casse pubbliche). Gli organismi internazionali raccomandano all’Italia prudenza: con una spesa previdenziale così alta, bisogna destinare risorse solo a misure strettamente mirate (ad esempio, agevolazioni per lavori usuranti o per chi ha carriere davvero lunghe) e mantenere il sistema in equilibrio attuariale. In altre parole, attuare esattamente quanto enunciato nella riforma Fornero del 2011: equità, adeguamento dei requisiti all’aspettativa di vita e semplificazione delle gestioni​. Come sintetizzato da alcuni economisti, occorre incentivare il prolungamento dell’attività lavorativa, controllare le uscite anticipate e sostenere la natalità per mettere in sicurezza il sistema​.

Riforme pensionistiche recenti e in discussione

Negli anni successivi alla riforma Fornero del 2011, il tema delle pensioni è rimasto costantemente al centro del dibattito politico, con tentativi di attenuare alcune rigidità e di introdurre maggiore flessibilità in uscita. Uno degli interventi più significativi è stato la sperimentazione di Quota 100 nel triennio 2019-2021: questa misura, voluta dal governo Conte I, permetteva di andare in pensione con almeno 62 anni di età e 38 anni di contributi (62+38 = 100, da cui il nome). Circa 380 mila lavoratori hanno usufruito di Quota 100 nei tre anni di vigenza, un numero inferiore alle attese iniziali​– segno che non tutti coloro che erano teoricamente eleggibili hanno scelto di lasciare il lavoro anticipatamente. In effetti, nel 2020 solo il 22% degli aventi diritto ha colto l’opportunità di Quota 100​, evidenziando che molti preferivano continuare a lavorare, magari per maturare un assegno più elevato. Esaurita Quota 100, i governi successivi hanno introdotto misure-ponte: nel 2022 Quota 102 (uscita con 64 anni e 38 di contributi) e nel 2023 la Quota 103 (62 anni e 41 di contributi), anch’esse a carattere temporaneo. Parallelamente, sono state prorogate altre forme di flessibilità mirate: l’APE Sociale, ovvero un anticipo pensionistico a carico dello Stato per categorie in difficoltà (disoccupati di lungo corso, caregiver, addetti a lavori gravosi) a partire dai 63 anni, attivato nel 2017 e rinnovato di anno in anno; la cosiddetta Opzione Donna, che consente alle lavoratrici di ritirarsi dal lavoro a un’età inferiore (58-60 anni) accettando però un assegno calcolato interamente col contributivo e quindi più basso – introdotta in via sperimentale nel 2004 e prorogata più volte, con criteri di accesso via via modificati e, di recente, limitata solo a donne con figli o situazioni particolari. Si tratta di strumenti che cercano di bilanciare le esigenze di gruppi specifici con la sostenibilità finanziaria generale: l’accesso è contingentato e i costi sono relativamente contenuti.

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Di segno diverso sono invece le proposte per aiutare i futuri pensionati più penalizzati dal sistema contributivo. Il concetto di “pensione di garanzia” per i giovani è emerso nel confronto tra sindacati e governo: l’idea sarebbe quella di assicurare un assegno minimo (ad esempio intorno ai 650-700 euro mensili) a coloro che, pur avendo lavorato e versato contributi, rischiano di percepire trattamenti molto bassi a causa di carriere intermittenti e salari ridotti. Finora non c’è nulla di concreto, ma il tema sta acquistando rilevanza man mano che si avvicina all’età matura la generazione di lavoratori precari degli anni 2000. Anche l’adeguamento delle pensioni minime è tornato nell’agenda politica: di fronte all’aumento dell’inflazione e al caro-vita, nel 2023 il governo ha introdotto un incremento temporaneo che ha portato l’assegno minimo per gli over 75 a circa 600 euro mensili. Alcune forze politiche propongono di elevare gradualmente tutte le pensioni minime a 1.000 euro, ma il costo di una simile misura sarebbe elevato e al momento mancano coperture finanziarie stabili.

Tra le riforme in discussione c’è soprattutto il nodo della flessibilità strutturale del sistema. Scadute le quote sperimentali, dal 2025 – in assenza di novità – si tornerebbe pienamente alle regole Fornero (pensione di vecchiaia a 67 anni o anticipata con oltre 42 anni di contributi). L’esecutivo attuale ha manifestato l’intenzione di evitare uno “scalino” troppo brusco. Una delle proposte sul tavolo è Quota 41 per tutti: permettere il pensionamento con 41 anni di contributi a prescindere dall’età, una soluzione invocata in particolare dalla Lega e dai sindacati. Tuttavia, un’uscita così anticipata (41 anni di contributi possono voler dire ritiro già a 61-62 anni per chi ha iniziato prestissimo) avrebbe costi notevoli se applicata senza limiti a tutta la platea: si stima un aggravio di molti miliardi l’anno sul lungo periodo. Un’altra ipotesi circolata è quella di introdurre una maggiore flessibilità attorno ai 62-64 anni di età, ma con penalizzazioni sull’assegno per chi sceglie di uscire prima (ad esempio una riduzione percentuale per ogni anno di anticipo), in modo da non gravare eccessivamente sulla spesa. Finora, però, non si è raggiunto un consenso politico su una riforma organica: il tema viene spesso rinviato alla legge di bilancio annuale, che puntualmente introduce deroghe o proroghe temporanee anziché un riordino stabile.

Le riforme più recenti hanno dunque cercato di correggere alcuni effetti collaterali della grande riforma del 2011 e di rendere il sistema un po’ più flessibile, ma sempre in modo limitato e transitorio. Il pendolo oscilla tra esigenze contrapposte: da un lato c’è la pressione sociale per abbassare l’età pensionabile, alimentata dal comprensibile desiderio di ritirarsi dal lavoro prima possibile dopo decenni di attività; dall’altro c’è la necessità di tenere sotto controllo la spesa pubblica e garantire la sostenibilità del debito in un Paese con pochi giovani. Misure come Quota 100 hanno mostrato effetti contrastanti – sollievo per chi ne ha beneficiato, ma impatto finanziario rilevante e benefici occupazionali non decisivi – e insegnano che le scorciatoie possono essere costose. Il “cantiere previdenziale” resta aperto: nei prossimi anni il legislatore sarà chiamato a disegnare un assetto più stabile, che probabilmente introdurrà un meccanismo di flessibilità permanente (ad esempio la possibilità di ritirarsi in un range di età, con aggiustamenti attuariali sull’assegno) accompagnato da misure di equità verso i giovani e le donne. L’equilibrio non è semplice da trovare, ma è cruciale per dare certezza e fiducia ai lavoratori di oggi e ai pensionati di domani.

Le sfide future del sistema pensionistico

Guardando al futuro, il sistema pensionistico italiano dovrà navigare tra diverse pressioni e obiettivi contrastanti. Da un lato c’è l’imperativo della sostenibilità finanziaria: mantenere il rapporto tra spesa previdenziale e PIL entro livelli gestibili, in modo da non gravare eccessivamente sulle generazioni attive e sui conti pubblici. Dall’altro lato c’è il tema dell’adeguatezza delle prestazioni: assicurare che gli assegni, pur sostenibili, non siano troppo bassi, scongiurando un aumento della povertà tra gli anziani e garantendo a chi ha lavorato per una vita un tenore di vita dignitoso. Raggiungere entrambi gli scopi sarà una sfida formidabile.

Nel prossimo decennio l’uscita dal mercato del lavoro dell’ultima parte della generazione dei baby boomers (nati negli anni ’50 e ’60) porterà il numero di pensionati al suo massimo storico, mentre la platea dei lavoratori rimarrà stagnante o diminuirà. Intorno al 2035-2040 dovrebbe verificarsi il picco di spesa previdenziale, seguito – secondo le proiezioni – da una graduale discesa dovuta principalmente alla riduzione della popolazione totale e all’effetto delle riforme già in vigore (che produrranno risparmi crescenti man mano che i nuovi pensionati avranno assegni calcolati interamente col contributivo)​. Sarà cruciale riuscire a traghettare il sistema oltre quel picco senza strappi: ciò significa prepararsi per tempo, accumulando magari avanzi nei periodi favorevoli da utilizzare quando la spesa raggiungerà l’apice, ed evitare di prendere decisioni miopi dettate dal consenso immediato ma deleterie nel lungo termine. Ogni modifica strutturale dovrebbe essere valutata non solo per l’oggi ma anche per gli effetti tra 20 o 30 anni.

Un altro fronte è quello dell’equità e della fiducia. Le regole dovranno essere chiare e stabili, per permettere ai lavoratori di oggi di sapere cosa aspettarsi domani e poter pianificare. Continui cambi di rotta e misure sperimentali possono minare la fiducia nel sistema, già messa alla prova – come si diceva – dalle disparità generazionali. Idealmente, si dovrebbe puntare a un quadro normativo il più possibile stabile e al tempo stesso flessibile: stabile nei principi (età legate alla speranza di vita, contributi commisurati alle prestazioni, solidarietà verso chi è in difficoltà), flessibile negli strumenti (possibilità di anticipare o posticipare l’uscita entro un certo intervallo, combinando pubblico e privato). In questo senso, alcuni esperti suggeriscono di introdurre un meccanismo di flessibilità permanente dopo una certa soglia di età – ad esempio dai 63-64 anni – con penalizzazioni attuariali moderate e crescenti per chi sceglie di ritirarsi pochi anni prima del limite ordinario. Questo darebbe alle persone la libertà di scegliere in base alle proprie esigenze (di salute, familiari, lavorative) senza scaricare interamente i costi sulla collettività.

Le politiche pubbliche dovranno inoltre affrontare il nodo di come garantire un trattamento adeguato a chi oggi ha carriere precarie e retribuzioni basse. Oltre a eventuali pensioni di garanzia finanziate dalla fiscalità generale, la chiave sarà favorire l’adesione massiccia alla previdenza complementare e, più in generale, migliorare le condizioni del mercato del lavoro. Più lavori stabili e meglio remunerati significano anche più contributi versati e pensioni future più adeguate. In parallelo, sarà importante sviluppare iniziative di educazione finanziaria affinché i cittadini siano consapevoli dell’importanza di risparmiare per la propria vecchiaia e sfruttino gli strumenti a disposizione.

Il sistema previdenziale italiano si trova dunque a un crocevia: ha alle spalle un lungo percorso di riforme che ne hanno rafforzato l’equilibrio, ma davanti a sé cambiamenti demografici epocali. Dovrà continuare a evolvere, forse con aggiustamenti graduali piuttosto che rivoluzioni improvvise, mantenendo saldo il principio di solidarietà tra generazioni che lo ispira fin dalle origini. Sarà un banco di prova per la lungimiranza della politica: le decisioni prese oggi determineranno il benessere di milioni di cittadini nei decenni a venire. La “sfida pensionistica” resta aperta, ma con consapevolezza, dialogo sociale e responsabilità condivisa è possibile trovare soluzioni per rendere il sistema più equo, efficiente e resiliente, così da preservare anche in futuro quel pilastro di sicurezza e civiltà rappresentato dalla previdenza. Solo attraverso un impegno collettivo e una visione di lungo periodo si potrà garantire che anche negli anni a venire il periodo del pensionamento sia vissuto con sicurezza e serenità da tutti i cittadini.

About the Author: Luca Spinelli

Fondatore e direttore di consulente-finanziario.org, Luca Spinelli è un consulente finanziario indipendente. Specializzato in pianificazione finanziaria e gestione di portafoglio, è appassionato di educazione finanziaria e si dedica a fornire consigli trasparenti ma soprattutto indipendenti per aiutare i lettori a prendere decisioni informate. Con uno stile diretto ed accessibile, Luca rende semplici anche i temi più complessi, garantendo sempre la massima attenzione alle esigenze dei suoi clienti e lettori.

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