Origini e storia dell’S&P 500
L’idea di un indice di 500 titoli di Standard & Poor’s ha radici antiche. L’ente Standard & Poor’s, oggi S&P Global, discende dalla Poor’s Publishing fondata da Henry Varnum Poor nel 1860. In seguito a varie fusioni, nel 1941 la società Poor’s Publishing si unì alla Standard Statistics (fondata nel 1906) assumendo il nome di Standard and Poor’s Corporation. L’indice S&P 500, così come lo conosciamo, fu concepito più tardi: originariamente era un semplice “composite index” lanciato su scala limitata nel 1923 e poi esteso a 90 titoli nel 1926. Nel 1957 S&P ampliò l’indice a 500 componenti, dando così vita all’S&P 500 ufficiale. L’obiettivo era creare un benchmark più rappresentativo dell’economia americana rispetto al Dow Jones Industrial Average, che includeva solo 30 titoli.
Anche la vita stessa di Warren Buffett offre un esempio tangibile di come nacque e si affermò l’S&P 500. Negli anni Sessanta Buffett investì in un fondo appena lanciato che replicava l’andamento delle azioni di 500 grandi società USA. Egli giustificò la sua scelta confidando nella “forza” e nella “crescita” dell’economia americana come motore del progresso industriale. Questa fiducia si rivelò lungimirante: già nei decenni successivi l’S&P 500 divenne noto come la misura principale dello sviluppo economico e del sentiment di mercato statunitense. Oggi sappiamo che nel lungo periodo l’S&P 500 ha restituito agli investitori un rendimento medio annuo dell’ordine del 10% (attorno al 9,5% su tutti gli anni dal 1950 al 2024). Tuttavia, questo dato medio nasconde la natura ciclica dell’indice, fatto di lunghi periodi di ascesa alternati a brusche discese che riflettono i diversi cicli economici del dopoguerra.
Composizione e criteri di inclusione delle aziende
L’S&P 500 è un indice ampio e diversificato, composto nominalmente da 500 società statunitensi di grande capitalizzazione. In realtà il numero di “componenti” è leggermente superiore a 500, perché tre delle aziende quotate (ad esempio Alphabet e Berkshire Hathaway) hanno due classi di azioni distinte, portando il totale degli strumenti a 503. La ponderazione di ciascuna azienda all’interno dell’indice avviene in base alla capitalizzazione di mercato (aggiustata per il flottante): le società più grandi in termini di valore complessivo dominano l’andamento dell’indice. Ad esempio, oggi i titoli tecnologici come Apple e Microsoft sono fra quelli con peso maggiore, proprio per il loro elevato market cap. L’S&P 500 raccoglie aziende di 11 settori economici (tecnologia dell’informazione, sanità, beni di consumo discrezionali e di prima necessità, finanza, telecomunicazioni, industrie, materiali, energia, utilities e immobiliare). La divisione settoriale riflette lo stato dell’economia statunitense: ad esempio, all’inizio del 2024 la tecnologia rappresentava circa il 28% dell’indice, la sanità il 13% e il consumo discrezionale un altro 13%.
Le società che entrano a far parte dell’S&P 500 non sono scelte dal mercato casualmente, ma selezionate da un comitato di S&P Global. Per essere ammissibili, le aziende devono rispettare criteri qualitativi e quantitativi. Devono essere società statunitensi con azioni quotate in Borsa, caratterizzate da capitalizzazione e liquidità sufficienti. Generalmente si richiede una capitalizzazione di mercato minima nell’ordine di decine di miliardi di dollari (negli ultimi anni si è parlato di soglie intorno ai 12–14 miliardi). Altre condizioni riguardano il flottante (si chiede che almeno il 10% delle azioni sia detenuto da investitori esterni), il volume di scambi (centinaia di migliaia di azioni vendute nei sei mesi precedenti)e persino la redditività: l’azienda deve aver registrato utili positivi negli ultimi quattro trimestri consecutivi. In sintesi, non basta essere grandi: per entrare nell’S&P 500 un titolo deve anche dimostrare stabilità finanziaria e sufficienti scambi di mercato. Quando una società cessa di soddisfare questi criteri – ad esempio per essere acquisita o per un drastico calo di utili – viene rimossa dall’indice, lasciando spazio a nuove realtà emergenti. Questi aggiustamenti periodici mantengono l’indice aggiornato sulle tendenze dell’economia americana.
Ruolo dell’indice nei mercati finanziari globali
L’S&P 500 è universalmente riconosciuto come il miglior indicatore delle grandi capitalizzazioni statunitensi e, di fatto, dell’andamento complessivo dell’economia USA. Copre circa l’80% della capitalizzazione di mercato disponibile degli Stati Uniti, il che lo rende estremamente rappresentativo: “500 leading companies” per S&P Global. Tra investitori e analisti di tutto il mondo l’S&P 500 è considerato “il miglior indicatore complessivo” del mercato azionario americano. In pratica, quando l’S&P 500 sale o scende, spesso anche altri mercati globali reagiscono in modo simile, perché le imprese USA sono molte e influenti in una economia globalizzata.
Per questo motivo l’indice è diventato uno standard di riferimento globale. Viene utilizzato sia dagli investitori istituzionali che dai privati come benchmark: molti fondi azionari confrontano la propria performance con quella dell’S&P 500, e ovviamente numerosi ETF e fondi comuni “seguono” proprio questo indice. Grazie al suo ampio respiro settoriale e all’alto volume di capitali coinvolti, l’S&P 500 sintetizza le aspettative e i sentiment degli investitori internazionali. Come sottolinea una guida di Investopedia, i tre grandi indici americani (Dow, S&P 500 e Nasdaq) sono considerati collettivamente una rappresentazione del “mercato azionario statunitense”. In questo trio, l’S&P 500 emerge per profondità e diversificazione: è il più ampio e copre tutti i settori economici, pertanto molti operatori lo vedono come la misura più affidabile della salute economica dell’America.
Come gli investitori lo utilizzano nelle strategie a lungo termine
Per gli investitori orientati al lungo periodo, l’S&P 500 svolge un ruolo fondamentale: è il fulcro di molte strategie passive e di wealth management. Warren Buffett stesso ha più volte consigliato al piccolo risparmiatore di acquistare un fondo indicizzato sull’S&P 500 e tenerlo a lungo. La ragione è pragmatica: poche persone o gestori professionisti riescono sistematicamente a battere l’indice, specie dopo aver detratto costi e commissioni. Per decenni la maggior parte dei fondi attivi non è riuscita a superare l’S&P 500. Emblematicamente, Buffett puntò una scommessa nel 2007 che un semplice fondo indicizzato sull’S&P 500 avrebbe superato qualunque hedge fund nel decennio successivo. In quel caso il fondo passivo vinse la sfida, confermando la logica di lungo termine di affidarsi all’indice anziché inseguire singoli titoli o gestori attivi.
Le ragioni del successo delle strategie legate all’S&P 500 sono chiare. Innanzitutto, la diversificazione offerta: con un unico investimento si detengono quote delle 500 maggiori società americane, distribuite su tutti i settori. Questo riduce il rischio specifico legato a un’azienda o a un settore. In secondo luogo, il basso costo: i fondi passivi che replicano l’S&P 500 godono di commissioni molto contenute, perché non necessitano di ricerca attiva. Ad esempio, l’ETF Vanguard S&P 500 (ticker VOO) ha un costo di gestione annuo dello 0,03%, inferiore di ordini di grandezza rispetto alle tipiche spese di un fondo azionario tradizionale. Controparte di questi bassi costi è l’assenza di sforzi di selezione titoli: ma storicamente questa scelta passiva si è rivelata vincente. Come osserva un’analisi, nella maggior parte degli anni (dal 2001 in poi) la stragrande maggioranza dei fondi non ha tenuto il passo dell’S&P 500.
Un altro aspetto chiave è la regolarità nell’investimento: Buffett sottolinea spesso il potere dell’interesse composto. Continuare ad acquistare quote di un fondo sull’S&P 500 a intervalli regolari consente di mediare i prezzi nel tempo e beneficiare della crescita complessiva dell’economia. Storicamente l’indice ha restituito mediamente circa il 10% annuo (prima dell’inflazione) nel lunghissimo periodo, cifra che con il reinvestimento dei dividendi permette di moltiplicare i propri risparmi su decenni. Buffett ricorda che il mercato, pur con alti e bassi, tende a salire nel tempo e quindi la strategia migliore è mantenere l’investimento e aggiungere quota periodicamente. Un’effetto collaterale positivo di questo approccio è l’eliminazione delle decisioni emotive: invece di comprare quando il mercato è in euforia e vendere in panico, l’investitore «semplice» si limita a un piano di accumulo nell’indice, lasciando che sia il tempo a fare il grosso del lavoro.
Performance storica: dati e tendenze
L’analisi dei dati storici conferma l’efficacia dell’S&P 500 nel generare ricchezza sul lungo termine, ma mostra anche la sua volatilità intrinseca. Complessivamente, tra il 1950 e il 2024 l’indice ha chiuso in rialzo in 55 anni su 75 (73% delle volte) e in ribasso negli altri 20 anni (27% dei casi). Quando è salito, la crescita media annua è stata del 17,45%; quando è sceso, il calo medio è stato del -12,40%. Nel complesso il rendimento medio annuo totale in questo arco è stato circa il 9,48%. Tali medie sono calcolate sui prezzi (quindi escludono dividendi), ma danno l’idea di una tendenza di crescita di lungo termine. Al netto dell’inflazione, studi finanziari mostrano che la performance reale storica dell’S&P 500 si colloca attorno al 6–7% annuo.
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