Spread: termometro finanziario tra mercati e politica
Lo spread è entrato stabilmente nel linguaggio quotidiano in Italia, soprattutto dopo la crisi del debito sovrano, diventando un indicatore chiave osservato da investitori, governi e cittadini. Il Fondo Monetario Internazionale ha ricordato di recente come l’Italia sia “un’economia avanzata caratterizzata da un debito elevato” in cui, per tradizione, c’è un’attenzione particolare al mercato dei titoli di Stato e allo spread. Ma cosa indica esattamente questo termine e perché è così importante? Nell’articolo analizziamo il significato del differenziale di rendimento tra i titoli italiani e tedeschi, il suo impatto su mercati e politica monetaria, le conseguenze per l’economia (soprattutto nel caso italiano) e il ruolo giocato da istituzioni come la BCE e le agenzie di rating, fino alle prospettive future.
Il significato dello spread nei titoli di Stato
In finanza, spread significa letteralmente “differenza”. Nel contesto dei titoli di Stato, indica precisamente la differenza di rendimento tra due obbligazioni simili per durata e tipologia, di cui una funge da riferimento. In Europa per convenzione si considera lo spread BTP-Bund, ovvero il confronto tra il tasso d’interesse offerto dal BTP decennale italiano e quello del Bund decennale tedesco. Se ad esempio il BTP a 10 anni rende il 2,55% e il Bund tedesco di pari durata rende lo 0,90%, la differenza (2,55% – 0,90%) è pari a 1,65 punti percentuali, cioè uno spread di 165 punti base. I punti base (basis point) sono l’unità di misura comunemente usata per esprimere gli spread: 100 punti base corrispondono a un differenziale dell’1%.
Lo spread è quindi un termometro del rischio percepito. In particolare, indica il premio al rischio che i mercati richiedono per detenere i titoli di uno Stato considerato meno affidabile rispetto a un altro ritenuto più sicuro. Se lo spread Italia-Germania si amplia, significa che aumenta il rendimento (e quindi il tasso d’interesse) chiesto dagli investitori per comprare BTP rispetto a quello offerto sui Bund tedeschi. In sostanza, i mercati stanno valutando il debito italiano più rischioso di quello tedesco e pretendono un interesse maggiore per compensare tale rischio. Viceversa, uno spread in contrazione segnala che il divario di rischio tra i due Paesi si sta riducendo: o perché l’Italia è percepita più solida (rendimenti BTP in calo), o perché è la Germania ad essere vista come relativamente meno sicura (rendimenti Bund in rialzo).
Negli anni l’andamento dello spread BTP-Bund è divenuto un indicatore della fiducia nell’Italia e, più in generale, della stabilità finanziaria nell’eurozona. Come sottolineato anche da analisti finanziari, in Europa il differenziale fra i titoli di Stato è ormai considerato “una misura della coesione dell’Unione” e un segnale, anche politico, della solidità finanziaria percepita di un Paese e dell’intera area Euro. Uno spread basso indica infatti che i mercati non vedono grandi divergenze di rischio all’interno dell’Eurozona, mentre uno spread elevato segnala sfiducia e timori specifici su un Paese, potenzialmente evidenziando crepe nella coesione monetaria.
Impatto sui mercati finanziari e sulla politica monetaria
L’oscillazione dello spread ha conseguenze dirette sui mercati finanziari. Un differenziale in aumento spesso innesca turbolenze: tassi in rialzo sui titoli di Stato significano prezzi in calo, il che può generare perdite per banche e investitori che detengono quei titoli. In Italia, le banche sono tra i principali detentori di BTP: se i rendimenti salgono (e i prezzi dei BTP scendono), gli istituti vedono erodersi il valore dei loro attivi. Studi hanno stimato che un incremento di 100 punti base dello spread riduce la capitalizzazione di borsa delle cinque maggiori banche italiane di circa 13,6 miliardi di euro. Questo indebolimento patrimoniale può spingere le banche a contenere il credito, creando un effetto a catena sull’economia reale. Inoltre, uno spread alto rende più costosa la raccolta di capitale per le banche sui mercati all’ingrosso, costringendole col tempo ad alzare i tassi applicati a prestiti e mutui. In pratica, quando il rischio Paese percepito aumenta, anche famiglie e imprese finiscono per pagare interessi più alti sui nuovi mutui (a tasso fisso o variabile) e sui finanziamenti bancari. Lo spread, nato come indicatore tecnico, diventa così un fattore che può influenzare le condizioni di credito nell’economia domestica.
Le implicazioni si estendono fino alla politica monetaria della Banca Centrale Europea. In un’unione monetaria, differenziali troppo ampi tra i Paesi membri rappresentano un rischio di “frammentazione finanziaria”: se i costi di indebitamento divergono eccessivamente, la trasmissione delle decisioni di politica monetaria (come tagli o rialzi dei tassi ufficiali) rischia di non essere uniforme nell’area euro. La BCE ha più volte ribadito l’importanza di evitare questo scenario, sottolineando che uno spread elevato ostacola il corretto passaggio delle sue misure ai vari Paesi. Spread troppo ampi possono infatti “danneggiare i canali di trasmissione della politica monetaria” e quindi ridurre l’efficacia delle azioni della BCE. È per questo che, specie nei momenti di crisi, l’Eurotower è intervenuta direttamente per calmierare i differenziali: esempi storici sono il celebre impegno di Mario Draghi nel 2012 a fare “whatever it takes” (cioè tutto il necessario) per salvaguardare l’euro – che contribuì a invertire la tendenza al rialzo degli spread – e, più recentemente, programmi di acquisto titoli e strumenti ad hoc. Nel 2022 la BCE ha perfino creato un nuovo Transmission Protection Instrument (TPI), concepito esplicitamente per contrastare “dinamiche di mercato disordinate” e movimenti degli spread che minaccino la stabilità dell’Eurozona. In parallelo, l’Unione Europea ha mostrato maggiore flessibilità sui vincoli di bilancio (ad esempio allentando a fine 2023 alcune regole del Patto di Stabilità) per aiutare gli Stati membri a gestire il debito senza innescare reazioni eccessive dei mercati. Questi interventi coordinati hanno l’obiettivo comune di contenere i picchi dello spread e preservare condizioni finanziarie omogenee nell’area euro.
Effetti sul debito pubblico e per i cittadini
Per un Paese ad alto debito come l’Italia, lo spread non è soltanto un numero nei terminali finanziari, ma ha ricadute concrete sul bilancio statale e sulla vita dei cittadini. Il rendimento dei BTP sul mercato secondario influenza direttamente il costo a cui il Tesoro può emettere nuovi titoli di Stato: uno spread in risalita implica tassi più alti nelle future aste di BTP e quindi maggiori oneri finanziari sul debito pubblico. In altre parole, se il mercato richiede un interesse maggiore sui titoli italiani, lo Stato deve pagare cedole più care per collocare il proprio debito, incrementando la spesa per interessi nel bilancio pubblico. Questa spesa extra finisce per assorbire risorse che potrebbero altrimenti essere destinate a servizi pubblici o investimenti. Come evidenziato dall’Osservatorio dei Conti Pubblici italiani, un aumento persistente di 100 punti base dei tassi di interesse sui titoli di Stato si traduce per l’erario in un aggravio di circa 2 miliardi di euro nel primo anno, 4,5 miliardi nel secondo e 6,6 miliardi nel terzo, fino a oltre 22 miliardi aggiuntivi a regime dopo alcuni anni. Si tratta di risorse ingenti: decine di miliardi che lo Stato sarebbe costretto a reperire attraverso più tasse o minori spese, senza alcun beneficio concreto per i cittadini, se non quello di remunerare più generosamente chi acquista il nostro debito. In sintesi, uno spread elevato significa più soldi pubblici spesi in interessi sul debito, il che può comportare manovre correttive, tagli a bilancio o rinvii di investimenti. È il motivo per cui politici e media parlano spesso di “spread che mangia risorse” e tengono alta l’attenzione sul suo valore: un differenziale fuori controllo mette a repentaglio la sostenibilità finanziaria di un paese nel medio termine.
Non solo: come visto, un forte allargamento dello spread può innescare una stretta creditizia nell’economia reale. Da un lato, lo Stato molto indebitato potrebbe trovarsi costretto a rifinanziare i propri titoli in scadenza a tassi ben più elevati, alimentando un circolo vizioso di debito; dall’altro, il settore privato soffre condizioni finanziarie più onerose. In Italia, l’aumento dello spread non incide sulle rate già in corso dei mutui a tasso variabile (legati all’Euribor, parametro comune europeo), ma va a colpire chi deve contrarre nuovi finanziamenti: per le famiglie diventa più costoso accendere mutui sia fissi che variabili, e per le imprese salgono i costi di prestito bancario e obbligazionario. Inoltre, se i BTP perdono valore nei portafogli bancari, le banche – una volta ridotto il loro capitale – tendono a ridurre la concessione di credito per mantenere gli indici di solidità patrimoniale entro i requisiti di vigilanza. Il risultato finale può essere una minore disponibilità di prestiti o tassi più alti su questi ultimi, frenando consumi e investimenti interni. In casi estremi, quando il differenziale di rendimento segnala un rischio Paese fuori controllo, può addirittura emergere il timore che lo Stato “perda l’accesso al mercato”, ovvero che gli investitori rifiutino di sottoscrivere nuovi titoli di quello Stato perché li considerano troppo rischiosi. È quanto accadde durante la fase acuta della crisi del debito sovrano in Europa: Grecia, Irlanda e Portogallo nel 2010-2011 videro i loro spread schizzare a livelli tali da rendergli impossibile finanziarsi autonomamente, dovendo ricorrere a piani di salvataggio. L’Italia sfiorò una situazione simile nel novembre 2011, quando i rendimenti alle stelle fecero temere che il Tesoro faticasse a collocare i BTP: evitare quella linea rossa è fondamentale per non precipitare in un evento finanziario catastrofico.
Lo spread in Italia: origini, oscillazioni e fattori chiave
Sebbene lo spread misuri un rapporto finanziario, in Italia esso è divenuto anche un fatto politico e sociale, specialmente all’indomani della crisi del 2011. Storicamente, per molti anni il differenziale BTP-Bund era rimasto modesto e poco discusso fuori dagli ambienti specialistici. Tuttavia, la crisi dei debiti sovrani iniziata nel 2009 lo portò drammaticamente alla ribalta. Tra il 2010 e il 2011, con l’intensificarsi delle tensioni finanziarie nell’Eurozona, lo spread italiano iniziò a salire ogni settimana sulle prime pagine dei giornali. La data spartiacque fu il 9 novembre 2011: in quei giorni convulsi il differenziale toccò il suo massimo storico a 574 punti base, con il rendimento del BTP decennale oltre il 7%. Quel livello allarmante di fatto segnò la fine anticipata del governo allora in carica e l’arrivo di un esecutivo tecnico guidato da Mario Monti, incaricato di rassicurare i mercati. Dopo l’apice del 2011, lo spread calò ma restò sorvegliato speciale: un nuovo picco si ebbe nel 2012 prima che gli interventi della BCE calmassero la tempesta finanziaria sull’euro.
Negli anni successivi, il differenziale BTP-Bund si è mosso come un sismografo della situazione politica ed economica italiana. Una fiammata si registrò a febbraio 2013 (oltre 340 punti base) all’indomani di un esito elettorale incerto che faceva temere ingovernabilità. Un’altra ondata di tensione arrivò a maggio 2018, quando le trattative per la formazione di un governo Lega-M5S alimentarono timori sul rispetto delle regole di bilancio europee e persino sull’ipotesi di un’uscita dell’Italia dall’euro: lo spread balzò nuovamente oltre quota 300, arrivando a circa 320 punti baseprima di rientrare parzialmente. Di nuovo nel marzo 2020, all’inizio della pandemia di Covid-19, l’iniziale risposta esitante della BCE fece impennare il differenziale fin verso 270 punti, finché l’annuncio del massiccio programma di acquisto PEPP ripristinò la calma sui mercati. Ogni fase di accentuato rialzo dello spread ha portato con sé conseguenze tangibili: aumenti del costo di finanziamento per lo Stato, cadute della fiducia, deprezzamento dei titoli bancari e spesso la necessità di interventi correttivi (nazionali o europei) per ripristinare la stabilità.
Va evidenziato che negli ultimi tempi la situazione appare più sotto controllo rispetto al passato. Dopo gli stress del 2022, collegati al cambio di rotta delle banche centrali (fine del QE e rapidi rialzi dei tassi d’interesse) e alle incertezze politiche interne, lo spread è gradualmente diminuito nel 2023 e 2024. Ad ottobre 2024 il differenziale BTP-Bund si attestava attorno ai 120 punti base, il più basso da almeno tre anni. Questo calo è proseguito all’inizio del 2025: a marzo lo spread italiano è sceso addirittura sotto la soglia psicologica dei 100 punti base, segnando il livello minimo dal 2021. Si tratta di un valore eccezionalmente contenuto (in 15 anni, il gap Italia-Germania era rimasto sotto i 100 punti solo raramente), frutto di una combinazione di fattori favorevoli. Da un lato, l’Italia ha beneficiato di un contesto europeo più solidale – con l’avanzamento di progetti comuni come il Recovery Fund nel 2020-21 e una generale condivisione dei rischi in fase pandemica – e di politiche monetarie accomodanti. Dall’altro, segnali di stabilità interna (come la continuità di governo e l’impegno nel PNRR) hanno migliorato la percezione internazionale. È indicativo che ad inizio 2023-2024 le aste di titoli italiani abbiano riscosso forte domanda anche da investitori esteri, nonostante il ciclo restrittivo BCE in atto, segno di una rinnovata fiducia. Resta comunque inteso che lo spread italiano, pur tornato su livelli moderati, è storicamente più alto di quello di Paesi simili (come Spagna o Francia) e può riallargarsi rapidamente se mutate condizioni di mercato o errori di policy minano la credibilità finanziaria del Paese.
Il ruolo della BCE e delle agenzie di rating
La vicenda dello spread BTP-Bund è strettamente intrecciata con l’operato della Banca Centrale Europea e con i giudizi delle agenzie di rating internazionali. Come accennato, la BCE ha assunto un ruolo cruciale di “difensore di ultima istanza” contro le crisi di fiducia dei mercati. Dopo la grande paura del 2011-2012, l’istituto di Francoforte ha lanciato strumenti come l’OMT (Outright Monetary Transactions) – un piano di acquisto illimitato di titoli dei Paesi in difficoltà, mai effettivamente utilizzato ma potentissimo nell’effetto annuncio – e successivamente programmi di Quantitative Easing (2015-2018) che, comprando massicciamente titoli di Stato, hanno abbassato i rendimenti in tutta l’Eurozona. Durante la pandemia da Covid-19 nel 2020, la BCE è intervenuta di nuovo in forza attraverso il PEPP, acquistando titoli italiani per decine di miliardi e contribuendo a tenere lo spread sotto controllo. Infine, con l’avvio nel 2022 del già citato TPI (scudo anti-frammentazione), la BCE ha voluto assicurare i mercati che non permetterà nuovi attacchi speculativi irragionevoli ai danni dei Paesi più deboli, Italia in primis. Queste misure, unite a una comunicazione più attenta (ricordando l’episodio di incertezza generato da una frase infelice di Christine Lagarde nel marzo 2020 sul “non compito” della BCE di ridurre gli spread, poi corretta), hanno creato un contesto in cui il differenziale BTP-Bund risulta meno volatile rispetto al passato a parità di shock.
Accanto alla BCE, un’altra influenza determinante è esercitata dalle agenzie di rating. Le valutazioni sul merito di credito sovrano da parte di Standard & Poor’s, Moody’s, Fitch (oltre alla canadese DBRS) agiscono come bussola per molti investitori istituzionali. Un upgrade o un downgrade del rating di un Paese può modificare l’appetito del mercato per i suoi titoli di Stato, incidendo quindi sullo spread. L’Italia attualmente mantiene rating nell’area medio-bassa dell’investment grade (BBB per S&P e Fitch, Baa3 per Moody’s), ossia appena sopra il livello “speculativo” o junk. Questo significa che eventuali peggioramenti del giudizio – per esempio a seguito di un aumento del debito o di politiche fiscali giudicate insostenibili – potrebbero amplificare la sfiducia e spingere il differenziale rapidamente verso l’alto. D’altro canto, notizie positive sul fronte rating tendono a rassicurare i mercati. Nel corso del 2023-2024, ad esempio, l’agenzia Fitch ha migliorato l’outlook dell’Italia da stabile a positivo, segnalando una possibile futura promozione del rating se i conti pubblici resteranno sotto controllo. Questo genere di comunicati contribuisce a ridurre i timori degli investitori, favorendo una compressione dello spread. Non a caso, gli operatori aspettano con trepidazione i cosiddetti “rating day”: quando si avvicinano le date in cui le agenzie emanano i loro verdetti sul debito italiano, il mercato dei BTP diventa più nervoso e può registrare oscillazioni significative. Gli annunci delle agenzie di rating sono considerati dei veri e propri market mover in grado di tracciare la rotta dei tassi dei BTP e dello spread BTP-Bund, assieme naturalmente alle decisioni della BCE. Una conferma o un upgrade possono far tirare un sospiro di sollievo (come avvenuto ad esempio nell’ottobre 2023, quando S&P evitò il temuto downgrade dell’Italia mantenendo rating e outlook invariati, e lo spread restò stabile attorno a 200 punti). Al contrario, il timore di una bocciatura – in particolare da parte di Moody’s, l’agenzia con il giudizio più vicino al limite inferiore – aleggia periodicamente sul mercato e tende a tenere il differenziale su livelli più alti rispetto ad altri Paesi meno indebitati. In aggiunta, va ricordato che se il debito italiano fosse mai declassato a livello speculativo, le banche nazionali avrebbero difficoltà a usarlo come garanzia presso la BCE, aggravando ulteriormente la stretta creditizia. Questo scenario estremo è al momento ritenuto remoto dagli analisti, ma evidenzia bene quanto l’ombrello delle agenzie di rating sia fondamentale per mantenere la fiducia sulla nostra sostenibilità finanziaria. Perciò governo e ministero dell’Economia sono costantemente impegnati nel dialogo con queste agenzie, cercando di dimostrare solidità di bilancio e prospettive di crescita sufficienti a scongiurare downgrade pericolosi.
Prospettive future: quale strada per lo spread?
Guardando avanti, quali sono le prospettive per lo spread e la stabilità finanziaria dell’Italia? Gli ultimi sviluppi inducono a un cauto ottimismo, ma anche alla consapevolezza che l’attenzione deve restare alta. Sul fronte positivo, diversi fattori potrebbero contribuire a mantenere (o persino ridurre ulteriormente) il differenziale nei prossimi mesi. In primo luogo, le aspettative di politica monetaria indicano che la BCE si avvia verso una fase di allentamento: i mercati scommettono su una serie di tagli dei tassi ufficiali tra il 2024 e il 2025, stimati in circa 70 punti base complessivi. Tassi in discesa significano rendimenti obbligazionari più bassi e quindi minor pressione al rialzo sui bond governativi, un contesto che tradizionalmente avvantaggia i paesi ad alto debito come l’Italia. Molti analisti prevedono infatti che i premi per il rischio nell’area euro continueranno a restringersi se l’Eurotower seguirà questo percorso accomodante. In parallelo, l’Europa sta compiendo passi verso una maggiore integrazione fiscale: il dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità e su nuovi strumenti comuni potrebbe sfociare in regole più adatte all’attuale contesto, evitando manovre procicliche e rassicurando gli investitori sulla tenuta dell’eurozona. Ogni segnale di coesione europea – dall’emissione di debito congiunto tipo Recovery Fund a possibili garanzie comuni – tende a riflettersi positivamente sullo spread italiano, perché riduce il “rischio idiosincratico” percepito sul nostro Paese.
Anche sul piano interno ci sono elementi incoraggianti. Il rapporto debito/PIL dell’Italia, pur elevato, è in lieve calo rispetto ai picchi post-pandemia (attorno al 144% nel 2020) ed è tornato vicino ai livelli pre-Covid, circa 135% nel 2023. Il governo in carica ha mostrato finora volontà di contenere il disavanzo entro limiti gestibili (nel 2024 previsto al 3,4% del PIL, in forte discesa dal 7,2% dell’anno precedente) e di attuare riforme collegate al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Questa maggiore disciplina fiscale e continuità politica – in un paese storicamente caratterizzato da frequenti crisi di governo – sta contribuendo a ridurre il “rischio Paese” percepito. Non a caso, la stabilità dell’esecutivo e l’assenza di retorica anti-europea hanno creato un contrasto con l’instabilità politica registrata in altre nazioni chiave (si pensi alle tensioni sociali in Francia o alle difficoltà di coalizione in Germania), rendendo l’Italia paradossalmente un punto fermo relativo agli occhi di alcuni investitori. Inoltre, il crescente coinvolgimento dei risparmiatori italiani nel finanziamento del debito pubblico offre un’ulteriore rete di protezione: la quota di debito detenuta da investitori retail domestici è salita al 15% nel 2024, ai massimi dal 2014. Questo significa che una fetta importante di BTP è in mani “di casa”, meno volatili rispetto ai fondi esteri; un continuo impegno delle famiglie italiane nell’acquisto di BTP (favorito anche dai nuovi strumenti come i BTP Futura o BTP Valore) potrebbe quindi attenuare l’impatto di eventuali vendite da parte di soggetti stranieri, rendendo lo spread più resistente agli shock esterni.
Tuttavia, esistono anche fattori di rischio da tenere in considerazione. Primo fra tutti, la mole del debito pubblico italiano rimane imponente in valore assoluto (oltre 2.800 miliardi di euro) e seconda solo alla Grecia in percentuale di PIL nell’UE. Ciò significa che l’Italia resta vulnerabile a eventuali cambi di sentiment improvvisi sul mercato globale dei bond. Crescita economica modesta e bassa produttività continuano ad affliggere il Paese: se le prospettive di sviluppo dovessero peggiorare ulteriormente, o se riforme essenziali per il rilancio dovessero arenarsi, gli investitori potrebbero tornare a esigere premi per il rischio più alti. Ad esempio, un rallentamento marcato dell’economia nel 2024-2025 renderebbe più difficile il raggiungimento degli obiettivi di riduzione del deficit e del debito, riaccendendo interrogativi sulla sostenibilità fiscale nel medio termine. Anche il contesto esterno conta molto: un improvviso irrigidimento delle condizioni finanziarie internazionali (ad esempio per crisi geopolitiche, shock energetici o un’inflazione più persistente del previsto che freni i tagli dei tassi BCE) potrebbe riportare volatilità sul comparto obbligazionario europeo e risospingere verso l’alto lo spread italiano. In sostanza, lo scenario benigno attuale non va dato per scontato.
Le istituzioni sovranazionali continuano a raccomandare prudenza. Il FMI, nel suo Fiscal Monitor, ha messo in guardia Roma sulla necessità di proseguire con un “aggiustamento credibile” dei conti pubblici per ridurre il debito su una traiettoria sostenibile. Analogamente, la Commissione Europea (che nel 2024 ha riattivato il Patto di Stabilità seppur transitoriamente adattato) vigila affinché l’Italia mantenga gli impegni sul deficit. Queste pressioni rappresentano un promemoria costante: solo preservando l’equilibrio di bilancio e portando avanti riforme pro-crescita il Paese potrà continuare a beneficiare di tassi di interesse gestibili. In caso contrario, la fiducia guadagnata potrebbe rapidamente svanire.
La parola “spread” resterà al centro del dibattito economico italiano anche nei prossimi anni. Da barometro della fiducia a simbolo della stabilità finanziaria, il differenziale BTP-Bund riflette vizi e virtù del sistema-Paese. La speranza è che, attraverso politiche oculate e la cornice di protezione europea, lo spread possa essere mantenuto su livelli contenuti e non torni a minacciare il benessere economico dell’Italia. I segnali recenti sono incoraggianti – il paese sta godendo di uno spread tra i più bassi dell’ultimo decennio – ma la lezione impartita dalle crisi passate è chiara: occorre continuare sulla strada della responsabilità fiscale e delle riforme, perché solo così il calmarsi dello spread potrà tradursi in opportunità concrete di crescita e beneficio per l’intera collettività.
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